Questa mostra nasce da un’idea della professoressa Francesca Zanella, che parallelamente al corso da lei tenuto, Storia e Teoria delle esposizioni e degli Allestimenti, ci ha proposto di partecipare al workshop Pensare Per Fare, e di elaborare tre differenti esposizioni legate alle giornate di studi dal tema Architettura e Pubblicità organizzate dal Dipartimento dei Beni Culturali e dello Spettacolo dell’Università di Parma il 23 e il 24 novembre 2010 presso l’Aula Magna dell’ateneo.  
Il nostro gruppo di ricerca, ha scelto di condividere questa importante esperienza con l’artista Giorgio Tentolini a cui va un ringraziamento speciale.
Si ringraziano i tutor Ilaria Bignotti, Elisabetta Modena e Marco Scotti per la disponibilità e
l’aiuto concessoci per l’elaborazione delle fasi del nostro progetto.
Si ringrazia il Dipartimento dei Beni Culturali e dello Spettacolo dell’Università di Parma e tutto il personale tecnico amministrativo.
 
Si ringrazia il dott. Paolo Barbaro e il Centro Studi Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma per la pazienza e il materiale fotografico gentilmente concessoci.   
Si ringrazia la signora Bianca e il signor Giovanni Amoretti dell’Archivio Fotografico Amoretti per averci cortesemente concesso l’uso delle immagini della mostra La tigre di carta. Si ringrazia la redazione del quotidiano La Sera per il materiale cartaceo offertoci per completare l’opera Over Information.

 

Un ringraziamento speciale a Silvia Bosio.


Staff:
Mostra a cura di Gabriella Gallo e Jennifer Malvezzi.
Assistenti scientifici: Fiorella Guarini, Michele Medici, Valentina Pascarella, Patricia Ruzzi.
Allestimento: Rossella Musi, Rossana Romano.
Progetto grafico: Daniela Bruschi, Alice Loschi.
Ufficio stampa e comunicazione: Martina Mariani.
Web: Lorenzo Bises.
Collaborazioni: Maddalena Barani, Ismael Martos, Emmanuele Ruggeri.


Introduzione
Pilot(t)ami! è una mostra di ricerca ideata e realizzata all’interno del workshop Pensare per fare nell’ambito del corso universitario di Storia e Teoria delle Esposizioni e degli Allestimenti tenuto dalla professoressa Francesca Zanella. Il nostro gruppo si è confrontato sul tema proposto Architettura e Pubblicità con l’artista Giorgio Tentolini, insieme abbiamo deciso di realizzare una mostra site specific nell’edificio che ospita il nostro Dipartimento, quello di Beni Artistici e dello Spettacolo.
Il nostro lavoro è iniziato da una ricerca bibliografica, dalla quale si sono sviluppati gli scritti di Rossana Romano e Rossella Musi che ricostruiscono alcune vicende legate al corpo architettonico del Palazzo della Pilotta. Questi contributi sono serviti in primo luogo a noi studenti e all’artista per conoscere a fondo alcuni passaggi storici aiutandoci a capire un passato fatto di continue costruzioni, crolli e mutamenti d’uso, spingendoci ad immaginare un percorso espositivo incentrato sulla decostruzione dell’immagine della Pilotta. La nostra volontà non è quella di fare una ricerca storica dettagliata, ma di rac- contare questo edificio come un luogo vivo e vissuto. Quest’esposizione ha la finalità di avvicinare il pubblico alla storia con un approccio non rigorosamente scientifico, in linea con le passate ricerche degli studenti che ci hanno preceduto in questo Dipartimento (con riferimento in particolare ad un’altra mostra sulla Pubblicità, La Tigre di carta, viatico della retorica pubblicitaria, 1970).

Nella seconda parte di questo catalogo Michele Medici e Valentina Pascarella hanno posto l’accento, attraverso l’analisi di alcune opere di Giorgio Tentolini, sul tema della memoria e della perdita della soggettività dell’individuo nella folla.
Partendo da queste opere già realizzate, in special modo Unknowns (2007), Tentolini ha ideato assieme al nostro gruppo di ricerca un percorso espositivo “in sottrazione”.

In un primo momento con Empty Field lo spettatore rivive la percezione dell’antico fruitore del palazzo che, venendo dal borgo, si trovava circondato dall’enorme struttura-contenitore della fabbrica. In seguito lo spettatore potrà osservare nell’elaborazione video Viatico della retorica pubblicitaria il palazzo come un continuum di informazioni saturanti proprio come quelle pubblicitarie. Questa sovrabbondanza di dati porta al col- lasso, visibile nell’opera Over Information, una Pilotta in miniatura che prende forma direttamente dalle pagine pubblicitarie mostrando come tutti i cambiamenti strutturali coincidano con un cambiamento di comunicazione tra la città esterna ed il palazzo. Il percorso prosegue con Target/Bersagli, dove porzioni esistenti del Palazzo sono isolate come bersagli in cui il pubblico-fruitore si perde, divenendo a sua volta probabile ber- saglio di messaggi pubblicitari e non. Vacuum Corner è l’apice sottrattivo del percorso in cui l’unica parte della Pilotta che resta è quella mancante. L’esposizione si chiude con l’opera iniziale Unknowns, dove resta la folla indistinta di sconosciuti, il pubblico a cui ci rivolgiamo.


Pilot(t)ami!
Gabriella Gallo e Jennifer Malvezzi


Il nostro paese sta vivendo un travagliato momento storico. L’attuale governo sta mettendo in discussione l’importanza dell’istituzione universitaria e più in generale della cultura stessa e quindi, di riflesso, della storia. Studiosi e studenti sono oggi protagonisti di una protesta che non può essere fatta solo dall’alto dei tetti. È necessario che l’Università “scenda” all’altezza della gente e torni a dialogare con l’esterno, ribadendo con forza la sua posizione indispensabile tra gli interlocutori sociali. Questo dialogo deve necessariamente incominciare dalla sua stessa città. Riavvicinare i cittadini ai simboli della loro storia, mostrare come questi simboli non siano parte di uno sterile passato remoto col quale “non si mangia”, ma di un continuum sociale, e che proprio per questo non sono mai lettera morta, ma presenti, costantemente riletti e riscritti da tutta la comunità.
Noi studenti d’arte e architettura siamo abituati ad analizzare le immagini, e sappiamo che per loro stessa natura sono il mezzo di comunicazione più efficace per veicolare un messaggio. L’immagine non è mai neutra ma ha una funzione più che esplicativa, ovvero archetipica ed educativa. Per questo, all’interno del workshop Pensare per Fare, il nostro gruppo di ricerca si è confrontato sul tema Architettura & Pubblicità con chi le immagini le “produce”:l ’artista Giorgio Tentolini. Insieme abbiamo deciso di realizzare una mostra site specific,Pilot(t)ami!, nell’Ala dei Contrafforti del Palazzo della Pilotta. Il percorso espositivo di Pilot(t)ami! affronta il tema dell’architettura attraverso l’analisi del “corpo architettonico” del Palazzo della Pilotta. Oltre quattro secoli di storia che s’intrecciano con il vissuto della cittadinanza parmigiana. La Pilotta prende vita con i Farnese, cresce sotto il dominio borbonico e attraversa l’età napoleonica per svilupparsi nel Risorgimento, diventando il più importante polo culturale cittadino. Ma quanti cittadini conoscono la sua storia frammentata proprio come il suo “corpo” di fabbrica? Cercando di rispondere a questi quesiti abbiamo deciso di “pubblicizzare” la storia della Pilotta af- frontando l’argomento pubblicità risalendo al suo stesso etimo: l’esser pubblico, l’essere aperto e accessibile al pubblico, l’atto di divulgare facendo conoscere al pubblico un “prodotto”.
Con le opere inedite realizzate per questo evento da Giorgio Tentolini, il visitatore entra all’interno di quest’Ala semisconosciuta dal pubblico, riscoprendo da una visuale inedita (dall’alto e internamente) l’intera fabbrica e il suo inserimento nel tessuto cittadino. Infatti, dalle finestre del quarto piano si può osservare sia il cortile del Guazzatoio, nascosto e inaccessibile, sia la parte pubblica attraversata ogni giorno distrattamente. Il percorso espositivo situato nella sala permetterà, attraverso la rielaborazione artistico-critica, di osservarne a 360° la storia e l’evoluzione dell’edificio, per riflettere metaforicamente su com’era, com’è o come potrebbe essere in un prossimo futuro. Fulcro del percorso è una concretizzazione della planimetria del palazzo, un’opera che prende forma direttamente dalle pagine pubblicitarie, concentrando la riflessione sul cambiamento di “quantità” di comunicazione nei corso dei secoli. L’intenzione è quella di “pilotare” il pubblico in un differente uso dell’Ala dei Contrafforti, la meno “pubblica” dell’edificio che torna, a distanza di anni, ad essere sede espositiva e nuovamente pubblicizzata. A tal proposito, sondando il passato della Pilotta non potevamo esimerci dal parlare della storia recente, degli interventi sullo spazio antistante di Mario Botta (1986 – 1992 - 2001) e all’interno della stessa Ala dei Contrafforti di Guido Canali (1970-1990).
Di particolar interesse per la nostra ricerca sono state le vicende dei restauri eseguiti da Canali per la fabbrica della Pilotta, legate a doppio filo con la storia del Dipartimento di Beni Culturali, l’allora Istituto di Storia Dell’arte dell’Università di Parma. Oltre a curare il riassetto delle parti “meno nobili” destinate proprio alla sede universitaria, l’Ala dei Contrafforti e le Scuderie, Canali partecipa anche all’allestimento di numerose mostre ed esposizioni curate dall’Istituto.
Una di queste esposizioni in modo particolare ha colpito il nostro interesse per le numerose rassomiglianze con il nostro, più modesto, progetto: La tigre di carta, viatico della comunicazione pubblicitaria. La mostra fu interamente ideata ed allestita da un gruppo di ricerca di studenti del corso di Arti Visive del Mondo Contemporaneo tenuto dal professore Arturo Carlo Quintavalle nel politicamente controverso anno accademico 1968 - 1969. La mostra si svolse l’anno dopo proprio nell’Ala dei Contrafforti. Nel saggio introduttivo del catalogo, scritto dagli stessi studenti, sono esplicitati gli obiettivi dell’intera esposizione: la necessità che “la mostra”, soprattutto se organizzata da un’istituzione formativa come l’università, diventi uno strumento di riflessione e di analisi che possa avere una “funzione civile”. Inoltre si evidenzia che anche la pubblicità e tutta la cosiddetta “cultura bassa” (settimanali, fumetti, televisione…) non solo sono equiparabili alla “cultura alta”, ma sono la forma di cultura e apprendimento più significativa della contemporaneità, e che per questo motivo tutti devono conoscere. Ulteriormente interessante è che in anni permeati da una forte ideologia, l’elevato senso critico di questo gruppo di studenti li portava a considerare la pubblicità come un mito, un mero “veicolo non comunicante di per se stesso e indifferente al contesto trasmesso” e pertanto non strettamente legato al capitalismo e alla società dei consumi.1 Oggi possono sembrare concetti scontati, ma non dobbiamo dimenticare che proprio in quegli anni usciva il celeberrimo saggio di Marshall McLuhan Gli strumenti del comunicare (1967), in cui si predicava la sovrapponibilità tra medium e messaggio, mentre la maggioranza degli intellettuali di sinistra riscopriva ed esaltava l’aspra critica alla società dei consumi descritta nei Minima Moralia (1954) di Theodor Adorno. Il breve saggio introduttivo a La tigre di carta, scritto in quegli anni che ci appaiono così lontani, ma anche così vicini oggi che ci troviamo di nuovo in una società che necessita una nuova, seppur profondamente differente “rivoluzione culturale”, si chiude sollevando interrogativi di un’attualità sconcertante sulla nostra società e sulle nostre città; interrogativi che abbiamo riscontrato essere condivisi non solo da noi ma anche da professionisti del settore, come è emerso durante le giornate di studi Architettura e Pubblicità del novembre scorso: Il problema è quindi duplice, da un lato a livello urbano quello di organizzare, localizzandola, la pubblicità medesima, ristabilendo i parametri umani del nostro centro - storico - dei nostri - centri storici – cittadini; eliminare quindi la città del mito per recuperare quella reale; dall’altro promuovere a livello di pubbliche istituzioni una seria pubblicità civile e culturale che non sia, poniamo, mistificante […] ma che sia d’intervento appunto delle autorità elettive nel tessuto dei problemi dei cittadini; se si può persuadere la gente […] forse si potrà stimolarla al vivere in una società civile, cioè più legata agli interessi comunitari e meno alla consueta eterodiretta esistenza, poniamo, davanti agli schermi della TV. Insomma il discorso di fondo sulla pubblicità tende a farsi discorso di politica culturale ed è, dunque, una prospettiva che non può non passare a chi ha appunto potere ed autorità.2
 
Il nostro progetto non ha la presunzione di raggiungere le stesse intuizioni e la fortuna critica dei brillanti studenti che ci hanno preceduto, ma cerca in egual modo di continuare a indagare la contemporaneità senza perdere mai di vista il passato.
In questa occasione abbiamo avuto modo non solo di analizzare la storia dell’architettura iconica parmigiana, ma soprattutto di conoscere e intrecciare il nostro vissuto con quello del luogo-simbolo del nostro percorso universitario, che da anni è parte integrante della quo- tidianità di ciascuno di noi.

 

Fin dall’inizio di questa “avventura progettuale”, il nostro gruppo ha sentito, in questo particolare momento storico e politico, la necessità di riportare l’attenzione sul polo e simbolo culturale più grande dell’intera città, sui cambiamenti nella sua fruizione - in cui noi siamo gli attori principali - facendo emergere il nostro pensiero critico, storico e attuale il quale, grazie agli stimoli che riceviamo ogni giorno proprio in questo luogo, non è mai sopito e che anzi cerca di tirare un filo rosso in continuità con le ricerche degli studenti di quarant’anni fa.


Le opere di Giorgio Tentolini:

memoria tra fotografia e  materia
Valentina Pascarella


Uno degli aspetti più affascinanti della ricerca di Giorgio Tentolini riguarda sicuramente la scelta dei materiali con cui compone le sue opere, sempre mirata e mai casuale, densa di significati simbolici. Leitmotiv di tutta la sua produzione è il tema della memoria, astratta e fuggevole, richiamata e saldamente ancorata dalla materia, cristallizzata negli scatti dell’artista, nel tentativo di eternare ed incarnare qualcosa di nostalgico. Nostalgico, come possono esserlo solo i ricordi nella nostra memoria. Le sue creazioni, quindi, rappresentano l’unione ideale tra etereo e concreto, forse un tentativo di afferrare ed aggrapparsi a qualcosa che non c’è più, di fermare il tempo.
Nelle prime due serie L’erba del vicino e Talkingheads, entrambe del 2003, l’artista utilizza
maschere dalle sembianze umane non vive, ma fatte viventi in virtù del materiale prescelto, la terra cruda. Infatti, nel primo lavoro, la terra di cui sono fatte le piccole teste è impastata con dei semi, sollecitati a germogliare dai fruitori, invitati ad innaffiare l’installazione. Lentamente le maschere si spaccano trafitte dai fili d’erba. Nel secondo, l’effetto “vivente” è ottenuto utilizzando una videoproiezione: su ogni testa è proiettata una successione di diversi ritratti a velocità moltiplicata fino a dare l’illusione del movimento umano degli occhi, trasformando così le maschere di terra in volti.
Per la visione, ma soprattutto per la comprensione delle opere di Tentolini è fondamentale
capire quale ruolo ha la luce nell’economia del suo lavoro, così fortemente legato al mezzo fotografico; in merito la critica Siria Bertorelli scrive: Il fotografo è colui che utilizza la macchina fotografica per fare delle fotografie. L’artista è colui che esprime il suo pensiero attraverso un mezzo, che può anche essere la fotografia. Quindi un artista utilizza il suo medium in funzione del messaggio che vuole ottenere, disinteressandosi talvolta delle particolarità specifiche del mezzo utilizzato. E’ importante partire da questa riflessione sulla diversità concettuale che esiste tra fotografo - artigiano e artista - fotografo per comprendere maggiormente il lavoro che presenterà l’artista Giorgio Tentolini. Il pretesto di partenza è una riflessione visiva, anzi due: due suggestioni per riflettere sulla propria percezione della visione. Il “panorama”, ovvero la veduta generale, complessiva, di una grande estensione, visione che naturalmente è negata all’occhio umano se non tramite la composizione di un mosaico di immagini adiacenti che cercano di coprire un adeguato angolo visivo. E’ la “messa in luce”, ovvero il rivelare, il togliere il velo per mostrare cosa sta dietro, un gesto che fa conoscere ciò che prima non ci era dato a sapere, ciò che prima era in ombra. Il tutto, quindi, imprescindibile dalla vista, per Aristotele il più importante dei cinque sensi (nell’incipit della Metafisica), quello che permette di conoscere meglio il mondo, e dalla luce come mezzo di conoscenza della realtà, che può diventare anche mezzo di distruzione. Non bisogna infatti dimenticare che
la troppa luce può accecare, o uccidere, e l’ombra può anche essere protettrice e rivelatrice.
L’importanza della luce unitamente a quella della posizione dello spettatore durante la visione dell’opera, caratterizza numerose opere di Tentolini; tra queste ricordiamo le serie:
Genomi (2004), Settestrade (2004), Suppliciations (2004), Pixel (2005), Crometype (2006) e Sconosciuti (2006). In queste opere il rapporto tra identità e memoria è indagato attraverso la stampa fotografica su acetato, un materiale trasparente e neutro. Ogni foglio stampato è come un istante cristallizzato del passato, che sovrapposto ad altri, si fa summa di ciò che è stato: solo la memoria, comprendendo la successione di attimi distinti, li ricompone in un unicum presente, che non è altro che l’opera d’arte stessa.
In Genomi (2004) la posizione dell’osservatore è fondamentale per la visione dell’opera, la cui tridimensionalità è data dalla successione di immagini singole, che, se poste frontalmente davanti all’osservatore, si propongono come un unico volto di cui ultimo è quello di Tentolini; mentre, se viste lateralmente, scoprono la scansione di diversi volti: persone che abitano il quotidiano dell’artista e che insieme conservano e formano la memoria e le emozioni del passato che essi stessi hanno generato entrando nella sua vita.
Interessante notare come la totalità dell’opera ne neghi la visione totale. Questo discorso è particolarmente evidente in Pixel (2005), dove Tentolini ha rielaborato la sua immagine mediante l’ingrandimento e l’isolamento del suo volto da una fotografia di gruppo. Solo da una grande distanza è possibile ricostruire la fisionomia del volto dell’artista, mentre da vicino l’identificazione è negata. In questo caso l’installazione è ricavata da piccoli blocchi di legno, un materiale caldo, però qui utilizzato come materia inorganica, seriale, depersonalizzante. Nell’opera Elevazioni (2006) la scelta di presentare proprio un dito si comprende in relazione al gesto del fotografare, del conoscere toccando, e si configura quasi come una metonimia che nel dito indice sintetizza la totalità dell’idea di gesto. Il gesto dello scatto fotografico, carpe diem, coglie proprio quel particolare attimo fissato per sempre dalla luce, del corpo che entra in correlazione con la macchina, fissando un’azione che, vive infinitamente nello spazio e nel tempo di una fotografia. Il dito impresso sull’acetato conserva la memoria del gesto fotografico, ma è solo un attimo, la conoscenza del mondo è negata dal silenzio, dall’inquietudine che scaturisce dalla fredda trasparenza del supporto scelto. Tentolini stesso utilizza una frase di Giorgio Agamben per spiegare l’opera:  Io credo che vi sia una relazione segreta fra gesto e fotografia. Il potere del gesto di riassumere e convocare interi ordini di potenze angeliche si costituisce nell’obiettivo fotografico e ha nella fotografia il suo locus, la sua ora topica. [...] Li fissa nella irrevocabilità di un aldilà infernale. Credo che l’inferno che è qui in questione sia un inferno pagano e non cristiano. Nell’Ade, le ombre dei morti ripetono all’infinito lo stesso gesto. Issione fa girare la sua ruota, le Danaidi cercano inutilmente di portare acqua in una brocca bucata.

Ma non si tratta di una punizione, le ombre pagane non sono dei dannati. L’eterna ripetizione è qui solo la cifra dell’infinita ricapitolazione di un’esistenza. Di che cosa, infatti, posso dire: “Io lo conosco”? Questo cuore, che è in me, lo posso sentire e ne arguisco che esiste. Questo mondo, posso toccarlo, e giudico di nuovo che esiste. Ma qui si ferma tutta la mia scienza, ed il resto è costruzione. Se tento, infatti, di afferrare questo io di cui sono certo, se cerco di definirlo e di compendiarlo, esso non è più che acqua che mi scorre tra le dita.

Posso disegnare ad uno ad uno tutti i volti che sa assumere, e anche quelli che sono stati dati: l’educazione, l’origine, le passioni o i lori silenzi, la grandezza o la bassezza. Ma non si sommano i volti. Questo cuore stesso, che pure è il mio, resterà sempre per me indefinibile. L’abisso che c’è tra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. Sarò sempre estraneo a me stesso. Nella psicologia, come nella logica, vi sono alcune verità, ma non esiste la verità. Il “conosci te stesso” di Socrate ha lo stesso valore del “sii virtuoso” dei nostri confessionali: allo stesso tempo oltre che una nostalgia rivelano anche un’ignoranza. Sono giochi sterili intorno a grandi soggetti, e non sono legittimi nella misura in cui sono approssimativi. Ecco ancora degli alberi di cui conosco la rugosità, e dell’acqua di cui sento il sapore. E questi profumi d’erba e di stelle, la notte, in certe sere in cui il cuore si placa... come negherò questo mondo, di cui sento la potenza e la forza? Eppure tutta la scienza di questa terra non potrà dirmi nulla che possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene. [....] Se posso afferrare con la scienza i fenomeni ed enumerarli, non posso comprendere altrettanto bene il mondo. […] Anche l’intelligenza mi dice, dunque, a modo suo, che questo mondo è assurdo. Il suo contrario, cioé la ragione cieca, ha un bel pretendere che tutto sia chiaro. 


Nelle opere Sufi (2006), Il Giuba Esplorato (2006) e Pre-Querce (2006) la scelta del materiale è funzionale al concetto, come dichiara lo stesso Tentolini: “Ho usato il legno perché mi affascina questo essere vivente - l’albero - che una volta ucciso può diventare altro da sè prestando il materiale del suo corpo al sezionamento e alla trasformazione pur mantenendo la sua riconoscibilità di essenza.” Da notare anche l’utilizzo del legno di recupero che conserva in sé la memoria di un precedente uso, in particolare nel caso de Il Giuba Esplorato, dove le assi sono riciclate dai pallet, i bancali utilizzati per trasportare merci, mansione esercitata dagli indigeni a fine Ottocento, protagonisti di quest’opera. L’artista recupera il ricordo degli indigeni attraverso la fotografia, ne mantiene la memoria rendendoli nuovamente visibili, conferendo loro, così come al legno, una nuova vita. In questa serie, inoltre, così come anche in Lenti colari (2005) e in Sufi (2006) l’immagine non è continua, ma è ottenuta attraverso la sezione del legno e dell’acetato, stampato di modo che l’ombra proiettata dall’acetato sul supporto ricostruisca l’immagine.
I meccanismi della visione sono indagati anche in Suppliciations (2004) e Settestrade (2007) dove però la visione è ingannevole: nel primo caso perché gli organi non sono collocati nella loro posizione veritiera, nel secondo perché assistiamo al tentativo di ricostruire qualcosa che non c’è più, qualcosa che manca, attraverso l’ausilio del ricordo.
In Kairos\Kronos (2007) come nella successiva Net (2009) è utilizzata la rete. Rete che simbolicamente assorbe nelle sue maglie i ricordi, intrappola il tempo fuggevole, lo fissa nel suo telaio, e proprio nella rete è tessuta e quindi trattenuta l’immagine. Ancora una volta, quindi, emerge il tema della memoria, stigmatizzato non solo dal materiale prescelto, ma anche dalla tecnica quasi matematica che Giorgio utilizza: la fotografia, sovrapposta alla rete successivamente intagliata, come spiega lo stesso artista per “ripetizione di moduli più o meno complessi che evocano i decori che si possono trovare nelle strutture primarie di arcaiche forme decorative.” Così, nonostante l’utilizzo di un materiale freddo, estremamente moderno quale la rete in pvc, viene preservata la memoria di un antichissimo metodo di lavorazione quasi ancestrale, che ricollega il fare artistico nei secoli.
Unknown (2007) e Unknowns (2007) sono due serie di opere intagliate nella carta, materiale vivo perché derivato dall’albero, che conserva memoria di quando era pianta nelle proprie fibre: in questa tecnica para-fotografica l’artista scava nella memoria e nell’ombra dei ricordi.
Tentolini stesso le descrive così:   Le mie “piccole anime” sono frammenti di tempo, simili a leggere scosse elettriche, sono quegli istanti in cui l’attenzione è catturata da un particolare che concentra lo sguardo, sono momenti di silenzio circondati da frastuono, sono il “la” per una fuga di pensieri e talvolta la soluzione di enigmi. Partendo da questi istanti rubati, scavando le ombre e stratificando le profondità, lavoro su una diversa fruizione dell’immagine fotografica. Tralascio l’aspetto narrativo e queste immagini non esternano nulla di intimo o di emozionale. Sono profondamente legato alle mie piccole anime, la fatica di realizzare queste opere è come un piccolo patto di gratitudine rivolto a loro.

Querce (2007) ed Erbe (2008) hanno in comune un gioco grafico, un’ironia voluta dal loro
autore: soggetti naturali, viventi, vengono rappresentati nella freddezza e nell’eleganza dell’acetato, materiale freddo e morto, come se fossero semplici motivi decorativi.
In Round Midnight (2009) e Now (2009) particolarmente importante è la tecnica utilizzata: l’immagine è ottenuta dalla sovrapposizione di frasi, che vengono “rasterizzate”, ovvero, perdono il loro valore convenzionale di simboli rappresentanti fonemi, e, quindi, parole e significato, per assumerne uno eminentemente grafico: soltanto la visione a distanza molto ravvicinata permette la lettura delle parole, mentre da lontano esse vengono ricomposte nella retina come immagine unica. La fotografia qui non è più composta da singoli punti, ma da lettere, ed assume un nuovo significato: quasi per contrappasso rispetto alla tecnica scelta, non ha più solo un valore visuale, ma assume anche un significato dato dalla stratificazione delle frasi, come se l’immagine conservasse memoria di tante esperienze diverse. L’artista ha utilizzato la tecnica della stampa su pvc, materiale freddo e moderno, illuminato da dietro.
L’intervista all’artista a proposito di questo lavoro, si rivela illuminante per comprendere la sua ricerca artistica:  Il mio approccio è in genere di tipo analitico: parto quindi da un percorso schematico che mi permetta sia di analizzare il fine che voglio comunicare che l’escamotage tecnico con cui risolvere l’opera. Un altro aspetto è quello della coerenza che cerco di mantenere nei miei progetti così che possano sempre dialogare tra loro. In genere evito di pianificare il risultato estetico dei miei lavori, ma lascio piuttosto che i tasselli di questo mio “schema” vadano a comporsi in spontanea successione. Son convinto che l’opera frutto di un percorso analitico rifletta automaticamente una sua purezza estetica. […] Le mie opere senza un apporto telematico sarebbero diverse. Il computer è uno strumento che mi è utile nella razionalizzazione dei miei intenti: in quest’epoca fatta di tecnologia, velocità e conoscenze condivise ricerco una sorta di emancipazione emozionale che non avrei potuto raggiungere attraverso i canali più tradizionali della scultura e della pittura.  
[…] La musica e l’installazione artistica sono di per sè linguaggi all’apparenza completamente diversi ma condividono alcuni aspetti, come il ritmo compositivo e la linea narrativa. Ho cercato di evitare forzature e di attenermi il più possibile alle consegne che mi ero preposto: prima di ideare il mio progetto ho interagito con i ragazzi del gruppo, per meglio comprendere quale fosse il significato dalla loro musica, ho ascoltato i brani, letto i testi e ho cercato di stabilire un punto di contatto. La scelta delle immagini e la tecnica sono risultate di conseguenza. […] L’insediamento del mio lavoro in un contesto spaziale è uno degli aspetti fondamentali della mia ricerca, in genere (non in questo caso) i miei progetti sono assolutamente dipendenti dalla luce e dalla direzione in cui questa è proiettata. In questo caso la mia opera sfrutta una doppia visione; da lontano è possibile riconoscere l’immagine originale, mentre man mano che ci si avvicina questa si “sgretola” per svelare l’aspetto intrinseco, quasi materico, dato dalla struttura dell’opera stessa, composta da un intreccio di parole, visibili/leggibili solo da una distanza minima. […] Vorrei che il fruitore delle mie opere seguisse a ritroso, guidato dalla propria intuizione, il percorso che mi ha portato alla creazione dei miei lavori, così da comprenderne l’essenza e le ragioni, vorrei riuscisse inoltre a porsi nuovi quesiti per individuarne poi le soluzioni; tutto questo rappresenta per me uno stimolo incredibile. […] Ho sviluppato questo progetto di pari passo con altri lavori, pur avendolo ideato per questa specifica manifestazione, raccoglie i frutti delle mie opere precedenti ma soprattutto di quelle in corso. Lo considero pertanto “figlio” di questo periodo.

 

In conclusione, notiamo ricorrere due serie di materiali usati spesso anche combinati tra loro: quelli caldi, come il legno, la carta, la terra, che rappresentano la metamorfosi della vita; e quelli freddi, come la rete e l’acetato, sovente associati all’utilizzo di sovrapposizioni e intagli, che simboleggiano la stratificazione della memoria, il sovrapporsi dei ricordi. La fotografia ha il compito di immortalare intuizioni e attimi, di preservare l’idea dallo scorrere del tempo, ma è curioso che, proprio nell’opera di un artista-fotografo come Giorgio Tentolini, le sue opere siano da ammirare dal vivo, perché in fotografia perdono gran parte della loro essenza.


Giorgio Tentolini:

l’impersistenza della memoria
Michele Medici


La nostra memoria non ha distinzioni nette come fotografie in un album: la memoria erode, dilava, smussa e deforma, cambia contesti, fa dimenticare, soprattutto nella contemporaneità, nella quale le stimolazioni sono portate all’eccesso e i ricordi si fanno più che mai volatili. Di questo, l’artista Giorgio Tentolini ne è ben consapevole, ma in un certo qual modo anche spaventato e ricerca conforto nell’ancestrale. Eppure ci si deve abituare a questo ritmo spasmodico perché è questo il battito rapsodico dei tempi. In una delle sue prime istallazioni, L’erba del vicino (2003) Tentolini commenta l’opera con parole precise e puntuali:  Partendo dal muschio che si sviluppa sui monumenti ma anche dall’edera sui palazzi, mi piaceva che questo corpo inerte, morto, digerito - di terra appunto - germogliasse, come un palazzo apparentemente abbandonato, un volto, non vivente ma vivo per valore aggiunto, quello di Castel Ponzone vuole essere un gioco, é diventato “l’erba del vicino”. Il pubblico passando l’innaffia come a far crescere l’invidia di questi omuncoli, identici, ma tutti di terre e crepe differenti. Su queste piccole teste di creta identiche che il pubblico innaffia, l’erba vi cresce in mezzo,  quasi come se i fili d’erba fossero propaggini neuronali. Il ricordo nella mente  si smussa, la  memoria divora, fa dimenticare, così come l’erba che oblìa i palazzi non protetti da sovraintendenze disattente; identità e cultura crollano se non si è pronti a ricordare e a tutelare adeguatamente la Memoria.

Memoria che è matassa e matrice dell’installazione Genomi (2004), dove l’artista va ad agire direttamente sul proprio passato personale. Lo fa toccando le note dei suoi sentimenti, i legami, le emozioni vissute, quelle intuite e quelle fruste, evocate da quanti in qualche modo hanno sfiorato, improntato o segnato la sua esperienza vitale. Attraverso la percezione di un unico volto narra una storia, la sua stessa storia. Con la fredda e attenta sovrapposizione di volti diversi, ci rende attuale il suo sentire: un quasi delirante tentativo di inglobare in sé l’altro da sé, non essendo nessun altro, ma rendendosi somigliante ad ognuno. Sembra di poter ritrovare nell’opera un sentimento di non appartenenza, contraddetto però dall’ossessiva ricerca di un’affettività rubata dai segni dei volti altrui. Al volto dell’artista se ne sovrappongono altri. Volti di persone importanti per il suo percorso, mappe emotive, ricordi, che deformano il volto dell’artista proprio attraverso i tratti di coloro che l’ha formato nel suo tragitto di vita. Ma nulla è statico, tutto è una formazione continua,  “una danza relazionale continua” per dirla con le parole di Gregory Bateson.2
La memoria come la natura, tutto erode tutto dilava; la persistenza della memoria non è possibile è altresì labile sembra dirci l’artista, rimane solo un’impronta nella nebbia. Nebbia che ovatta, la “nebbia felliniana” dei ricordi, è presente nell’istallazione Settestrade (2004) in cui l’elemento magico - evocativo è potente. Tentolini, estremamente legato alle sue origini, lavora su un ricordo fantasma, nell’evocazione delle prospettive visive da un’edicola in stile liberty presente in passato, lasciando che la nebbia del tempo e della memoria compia la sua epifania.
In Suppliciations (2004) citando il testo di Artaud3, l’artista ci parla della potenza trasfigurante della passione, lo stesso vigore  trascinante lo conduce la memoria: l’individuo si ritrova e si ripensa solo nella memoria che ha di sé, sono possibili le sole visioni parziali, frammenti di “genomi”, sovrapposizioni di ricordi che tutto trasfigurano e cambiano i corpi come i ricordi  he si crepano, mutano,  proprio come le teste dell’istallazione del 2003. Una continua inarrestabile metamorfosi che si fatica ad arginare, è un corpo in perpetua crescita. Le trasformazioni sono così veloci che addirittura non si può avere piena e totale memoria di sé. Anche in Pixel (2005) l’uomo - artista tenta di stare a galla nell’ingorgo della contemporaneità ingrandendo la sua fisionomia, che però così facendo “mantiene solo la memoria” fino a perdere i contorni. Tentolini stesso, in merito dichiara:  Pixel è una piccola presenza ingigantita: da una foto di gruppo ho estratto il mio volto, in digitale l’ho ingrandito all’esasperazione ed ogni pixel è diventato la tessera di un mosaico tridimensionale. Così questa scultura mantiene la memoria di me. Per non confonderlo con i caratteri di mille altre fisionomie si è costretti a guardarlo da molto lontano.4

Durante il suo percorso erratico, nel 2006 Tentolini approda a palazzo Pigorini, sede espositiva parmense che decide di omaggiare con un’installazione site-specific dal titolo Il Giuba esplorato, a memoria di un antico abitante dell’edificio, l’esploratore Vittorio Bottego che a fine ‘800 visita il corno d’Africa. Come descrive puntualmente la critica d’arte Vanja Strukelj:  Alcune foto della fine dell’Ottocento che ritraggono l’antropologo nel suo viaggio lungo il fiume Giuba divengono lo spunto per un lavoro che approfondisce tematiche già affrontate dall’autore. Sono allora le figure degli indigeni incontrati da Bottego a comparire sulle pareti del lungo corridoio, presenze che affiorano con la consistenza di ectoplasmi. […] E allora lo spettatore che, percorrendo lo spazio, deve cercare il punto in cui l’immagine si definisce, in cui riconquista nel gioco delle ombre proiettate una sua momentanea consistenza, e rincorrere quelle anime guerriere a cui solo il ricordo può dare ancora un attimo di vita.5

L’artista esplora ancora una volta il tortuoso fiume della memoria, facendo affiorare dalle foto antropologiche scattate dal Bottego, gli indigeni che in terre d’Africa risiedevano. Ricerca ciò che è presumibilmente salvifico nel primigenio, nel primordiale, nell’humus comune che ci costituisce uomini. Uomini nomadi, proprio come gli indigeni e come la nostra memoria, quanto mai impersistente, votata al cambiamento, aperta al proteiforme.
Con l’installazione Kairos/Kronos (2007) Tentolini ci porta ancora una volta a riflettere sul contemporaneo, partendo anche questa volta dal passato. In una dialettica serrata Kronos, che rappresenta il tempo stabile si confronta con Kairos, uno dei figli più giovani di Zeus che rappresenta il tempo labile, l’inafferrabile. Il fiotto di memoria volatile, il fotogramma pubblicitario che deperisce subito nella nostra memoria. Se si vuol sopravvivere ai tempi mutevoli bisogna ancora una volta danzare, come il “Kairos ballerino” di Leucippo. Kairos non sclerotizza il tempo, lo fa fluire, anche se il terreno è cedevole e desta insicurezza: bisogna esser pronti alla metamorfosi, alla decostruzione delle architetture mentali. L’artista stesso, ci ricorda che Kairos è inteso da Aristotele come il tempo che da valore: “ciò che accade nel momento opportuno e buono”.6  Kairos s’incarna nell’arte di Tentolini attraverso le coreografie richieste dall’artista al coreografo Daniele Albanese. L’immagine sembra consigliarci di divenire progenitori, nomadi ballerini tribali, per tentare di carpire lo scatto, il momento del tempo in dissoluzione. Di “tempi e immagini” e “tempi in dissoluzione” si racconta con le installazioni del 2007 Unknown e  Unknowns, in cui l’artista è un flâneur. Lo sguardo di un camminatore stanco e senza fiato per le infinite e vorticose sollecitazioni visive che propone la città tappezzata dalla pubblicità, che spesso si palesa ipertrofica su di noi senza lasciare alcuna traccia.
I nostri nuclei cittadini sono invasi da messaggi pubblicitari, non c’è silenzio, solo un grande schiamazzo comunicativo. Rispondendo con la serie Sconosciuti (2006), l’artista vuole riportare lo spettatore ad una dimensione di calma e pace; sono sagome leggerissime, soffi carpiti nell’attimo tra la tanta CO2 culturale. Tentolini, cercando di non lasciarsi sommergere dalle seducenti proposte merceologiche, va a salvare almeno i volti che gli si imprimono nella memoria casualmente. Nel comunicato stampa dell’esposizione, Valter Rosa del Museo di Diotti descrive così le “piccole anime” di quest’opera:  Ma è proprio in quel punto, dove l’immagine sta per scomparire, azzerata nel grigiore di fondo di una memoria ormai satura o travolta dal flusso vorticoso di infinite sollecitazioni visive, che Tentolini compie il suo salvataggio in extremis, riconferendo quasi artigianalmente una stabilità a quell’ombra, secondo un percorso inverso che conduce alla sua interiorizzazione, cioè a ritrovarla sedimentata in un angolo riposto nella memoria.7
Gli antichi “antenati del Giuba”, immagini labili a cui solo la memoria può momentaneamente dar vita, e gli Sconosciuti esposti un anno dopo, dialogano. Sono entrambe immagini in dissoluzione, sul punto di scomparire nel bianco metafisico della nebbia, misteriose “figure segnale”.8 A questo proposito può essere utile riportare alla mente il commento fatto da Vanja Strukelj in occasione di una collettiva tenutasi a Palazzo Pigorini nel 2008:  La serialità di molti lavori, crea le premesse per una loro presentazione in una chiave più complessa.
Per esempio la serie Unknown di Giorgio Tentolini parte da una tecnica molto peculiare: incidere dei bassorilievi su blocchi di carta. Ne emergono delle figure-segnale, semplificate e astratte: tratti di persone “sconosciute” che avanzano nel vuoto, nel bianco della carta. E’ il taglio della luce che rivela pienamente le presenze e che conferisce un valore enigmatico e metafisico.9
La “nebbia” che sfuma è presente come valore atmosferico non solo in Unknowns e Settestrade ma anche nell’opera Net (2009) in cui la lenta dissolvenza di un corpo umano nel tragitto di una luce che smussa i contorni prosegue fino a perdersi e dissolversi nella metamorfosi della rete sociale con libere e infinite connessioni. Queste tematiche sono affrontate da Tentolini anche nell’opera Round Midnight (2009) che si pone come una riflessione sul concetto di panorama precluso all’uomo; l’essere umano deve contentarsi di visioni parziali, fa i conti con la memoria che è un terreno più che mai franoso, pronto a crepare e mutare. Questa memoria deve necessariamente confrontarsi con la modificazione. Ecco la grande sfida che si richiede all’uomo contemporaneo: gettarsi nel labirinto del quotidiano anche a costo di perdersi.
Si vince questa strenua battaglia all’insegna della mutevolezza. Round Midnight (2009) è inoltre un omaggio al mondo del jazz, infatti il titolo è mutuato da un pezzo composto da Thelonious Monk, Cootie Williams e Bernie Hanigen, uno standard, un brano con andamento libero che si presta a molteplici variazioni sul tema. La musica si fa salvifica per una memoria “perpetua”, in perenne trasformazione, perché come Foucault sottolineava “noi viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta, credo, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa”.10
Ciò che è stato espresso in maniera cristallina da Foucault è certamente stato interiorizzato da Tentolini; infatti nella prima installazione L’erba del vicino, sono presenti piccole teste pensanti con singole memorie ma in connessione, pronte all’ibridazione, alla contaminazione, che vanno a formare il reticolo, la “matassa foucaultiana”. L’artista, consapevole della mutevolezza dei tempi, li scandaglia attraverso l’esplorazione della memoria condivisa che ci forma e ci deforma in un reticolo di terre perpetuamente differenti.

La memoria, quindi, come un territorio partecipato, territorio che per restare deve cambiare, in metamorfosi costante, al passo coi tempi.


opere in catalogo


Opere in esposizione

Empty Field
2011
80x80
Plexiglass e filo di cotone
Pezzo unico

Viatico della retorica pubblicitaria
2011
Rielaborazione digitale
1 video di 4 minuti circa predisposto per il loop

Over Information
2011
Dimensioni variabili
Installazione composta da strati di carta di giornale precedentemente strappata in piccoli
pezzi
Pezzo unico

Target/Bersagli
2011
48x48 (con cornice 52x52)
Rielaborazione digitale - stampa lambda
Serie di 5 soggetti, ognuno dei quali ha una tiratura di 15

Vacuum Corner
2011
29x20 (con cornice 52x52)
Collage di fogli bianchi incisi a mano
Serie di 1 soggetto, tiratura di 5

Unknowns
2007
21x29,7
Collage di fogli di carta riciclata incisi a mano
7 pezzi


Biografia dell’artista

 

Giorgio Tentolini  è nato a Casalmaggiore (Cr) il 3 Luglio 1978, i suoi studi sono strettamente legati all’ambito artistico sin dall’adolescenza, consegue il diploma in arti grafiche applicate presso “Istituto d’arte P. Toschi” nel 1997. Successivamente, nel 1999, si iscrive al corso parauniversitario di design e comunicazione presso l’Università del Progetto di Reggio Emilia. Nel 2005 frequenta un corso base e avanzato Pratiche di Teatro al Teatro Lenz Rifrazioni di Parma. Nel 2000 affianca in veste di assistente l’artista Marco Nereo Rotelli in alcune manifestazioni internazionali tra cui Bunker poetico alla Biennale di Venezia. Nel 2001 segue uno stage formativo presso lo studio di design di Denis Santachiara a Milano.
La sua carriera artistica è in continuo divenire, dal 2002 al 2009 lavora presso l’agenzia Lifesaver (www.lifesaver.it) come junior-art-director, set designer e fotografo, dove viene coinvolto in molti progetti grafici per importanti riviste di moda: Vogue Gioiello, Vogue Pelle, l’allegato living (MLF) e fashion (MMF) di Milano Finanza, l’allegato First di Panorama e molte altre. Lavora anche per campagne pubblicitarie di marchi prestigiosi come Max&Co, Imperial Fashion, C.P. Company, Motivi, Katy Van Zeland.
Le sue mostre personali si sono tenute nella sua natia Casalmaggiore come quella del 2007 presso il Museo Diotti dal titolo “Animula Vagula Blandula” a cura di Valter Rosa. Al nostro primo incontro ci ha gentilmente portato alcune sue opere esposte a Palazzo Pigorini, a Parma, durante una mostra collettiva intitolata “Punto15” a cura di Vanja Strukelj e Valerio Dehò nel 2008. Negli ultimi anni si è confrontato anche con il clima artistico straniero, nel maggio 2008 partecipa alla Collettiva a Londra con la mostra “Perpetuum Mobile” APT Gallery-Art in Perpetuity Trust e nel 2009 con “ViewPoint” S&G Arte Contemporanea a Berlino, a cura di Adriana Gonzales.


Il Palazzo della Pilotta:

da edificio di rappresentanza a monumento pubblico cittadino
Rossana Romano

La storia della città di Parma è fortemente legata alle vicissitudini della famiglia Farnese che conservò il potere sulla città per oltre due secoli. Il ducato di Parma nacque il 26 agosto 1545, quando Papa Paolo III staccò dallo Stato della Chiesa le due città di Parma e di Piacenza, le costituì in ducato e ne investì il figlio Pier Luigi. Il primo duca di Parma, intrigante, avventato e incapace, si dimostrò inadatto all’incarico: mise spesso in difficoltà il padre, e non era gradito neppure all’imperatore spagnolo Carlo V, il quale da anni cercava di trovare nello Stato della Chiesa un valido alleato contro la nemica Francia. L’imperatore avrebbe preferito che la scelta del Papa fosse ricaduta su Ottavio, figlio di Pier Luigi e promesso alla figlia Margherita. Ad ogni modo, il 10 settembre 1547, una congiura di nobili piacentini costò la vita al duca. Subito dopo iniziarono diverse trattative politiche per il dominio del ducato di Parma e Piacenza. Paolo III restituì le due città alla Santa Sede, per evitare la completa disfatta dei Farnese, che si trovavano infatti a rivaleggiare con Carlo V di Spagna da una parte, ed Enrico II di Francia dall’altra. Di lì a poco, nel 1549, Paolo III morì e Carlo V fece pressioni sul nuovo Papa, Giulio III, affinché il ducato emiliano fosse assegnato all’impero. I Farnese strinsero un’alleanza con la Francia, e quando Giulio III cedette alle pressioni dell’Imperatore e dichiarò Ottavio decaduto dal ducato di Parma, per riconquistare la città non restarono che le armi. Il conflitto si svolse tra il 1551 e il 1552 e i Farnese ebbero la meglio. Insediatosi a Parma, il duca Ottavio intraprese una prudente politica di trattativa con l’imperatore Carlo V, ottenendo la restituzione di Piacenza. Ottavio fu senza dubbio un ottimo politico, attento amministratore e abile nei rapporti con i suoi feudatari. Questa stessa assennatezza la dimostrò anche in merito alla fabbrica della Pilotta. Infatti, Parma, eletta dal duca come propria sede privilegiata, mancava di un edificio consono ad accogliere la corte, il duca però preferì non far erigere un nuovo castello bastionato, per non gravare ulteriormente sulle tasche dei cittadini. Solo nel 1580 il duca decise di dare un tono più distinto al Palazzo Ducale (che si ergeva al posto dell’attuale prato del Piazzale della Pace), facendo costruire una galleria, detta Corridore: essa doveva collegare la residenza ducale al giardino, attraverso un ponte sul torrente. Tale soluzione già utilizzata in un altro famoso edificio della famiglia Farnese: pensiamo ad esempio al progetto di collegamento di Palazzo Farnese (1540-1589) a Roma, con gli orti della Farnesina. L’architetto Antonio da Sangallo il Giovane fu chiamato a progettare quello che sarebbe stato il primo dei palazzi pontifici a Roma, Palazzo Farnese appunto: un’opera tanto ben riuscita da non essere seconda a nessun’altra sia per l’impatto visivo, che per il cortile. Il Sangallo morì nel 1546 e fu Michelangelo a continuare il lavoro, proponendo una suggestiva apertura in forma di loggia al piano nobile, così da creare un collegamento visivo col giardino, il Tevere e le colline sul lato opposto; si vagheggiò anche di un collegamento con gli orti per mezzo di un cavalcavia su via Giulia e di un ponte sul Tevere, ma entrambe le idee rimasero solo allo stato di progetto.
Tuttavia il modello a cui più si ispirò Ottavio fu la corte medicea a Firenze. Proprio in quegli anni Vasari stava realizzando il progetto di un percorso sopraelevato, per dare l’opportunità ai granduchi di muoversi liberamente dalla loro residenza al palazzo del governo. Evidente il legame tra il Corridoio Vasariano e l’idea di Ottavio, il quale chiese la costruzione del percorso coperto del Corridore per congiungere il Palazzo Ducale alla “Rocchetta” di origine sforzesca poi integrata nella fabbrica dell’edificio, permettendo così di raggiungere anche la residenza estiva al di là del torrente tramite il ponte ligneo preesistente. Il Corridore costituisce dunque il primo nucleo della Pilotta, la prima edificazione che tentava di dare un tono di rappresentanza al modestissimo Palazzo Ducale. Negli stessi anni a Sabbioneta si costruì la Galleria degli Antichi che servì a dare l’idea del Corridore ad Ottavio, pur presentando delle differenze legate soprattutto alla funzione e alle dimensioni.  I lavori per il Corridore iniziarono nel 1583, probabilmente per opera di Francesco Paciotto, architetto militare e civile di Ottavio fin dal 1551. La certezza di tale paternità però non può essere provata poiché manca il “mastro farnesiano”, una sorta di registro delle spese della fabbrica e dell’avanzamento dei lavori, del periodo 1579-1582. Ciononostante l’aspetto dell’edificio pare proprio corrispon- dere ai modi espressivi del Paciotto, architetto urbinate e purista, che sostituisce all’ordine architettonico classico un sistema di fasce verticali interrotte da fasce orizzontali. A piano terra le arcate sono vuote, al primo piano gli archi, più bassi e ciechi, sono incastonati fra molteplici riquadrature: quasi a suggerire una teoria di serliane. Ancora al di sopra si trova un mezzanino con finestrini intervallati da specchiature di diverse larghezze.
La fabbrica del Corridore, non ancora completata alla morte del duca Ottavio (1586), fu interrotta durante la reggenza del figlio, Alessandro, che passò quasi tutta la sua vita nei Paesi Bassi. E’ probabile che i lavori siano stati finiti velocemente lasciando incompleta la fila settentrionale dei pilastri e forse anche la facciata verso l’attuale cortile della Pilotta, terminata poi con il nuovo palazzo di Ranuccio, successore di Alessandro. Questa potrebbe essere la ragione delle differenze tra la facciata lasciata presumibilmente incompleta da Alessandro e quella rivolta verso il mercato della Ghiaia, che dovrebbe cor- rispondere a quella del progetto originale. Nel 1592 Ranuccio I divenne il quarto duca di Parma e a lui si deve la costruzione del vero e proprio Palazzo della Pilotta. Visto il carattere disorganico e irrisolto dell’edificio è fondato ritenere che egli abbia attivamente partecipato all’ideazione del progetto, coadiuvato da Simone Moschino, scultore e architetto toscano non molto ferrato nell’elaborazione di grandi edifici. Tuttavia, come si legge nei capitoli allegati al rogito del cancelliere ducale Ludovico Medici, del 29 gennaio 1602, esisteva un programma funzionale per la Pilotta. Il palazzo doveva diventare un enorme “contenitore” di servizi annesso alla residenza ducale farnesiana, ospitando un enorme Salone, una grande scuderia con relativo fienile e le abitazioni per gli stallieri, il maneggio, la stalla dei muli, la rimessa per le carrozze, il guardaroba, la Sala dell’Accademia e tante gallerie a delimitare i cortili per il gioco della pelota basca praticato dai soldati spagnoli nel cortile del Guazzatoio,originariamente detto “cortile della pelota”, che in seguito verrà storpiato in “pilotta”, dando il nome all’intero edificio. L’idea progettuale era forse atta a formare un sistema interno di piazze che imitassero in un certo qual modo l’impostazione della reggia-monastero dell’Escorial a Madrid, senza tuttavia ereditarne né la struttura regolare e geometrica, né le funzioni celebrative e simboliche. In definitiva, l’esigenza primaria che la Pilotta doveva andare a soddisfare nel progetto di Ranuccio era quella di rappresentatività: ovviare finalmente all’inadeguatezza del Palazzo Ducale con la costruzione di un enorme manufatto. Il carattere dell’intervento di Ranuccio appare fortemente antitetico a quello di Ottavio: autoritario e drastico, poco integrato con il tessuto urbano e fuori scala, mancante di unitarietà e con evidenti cadute di linguaggio sul piano architettonico, soprattutto per quel che riguarda la giustapposizione degli spazi e il programma funzionale. I lavori alla fabbrica della Pilotta, tuttavia, procedettero senza problemi e il ragguaglio steso dal computista Alessandro Danella nel maggio del 1608 ci dà un’immagine completa dello stato dei lavori a quel momento: il cortile di San Pietro Martire risultava a buon punto, poiché i lati del Corridore e del Salone erano già completi, quasi terminato anche il lavoro al lato confinante con il cortile del Guazzatoio, invece si stava ancora completando il quarto lato del cortile verso strada Garibaldi. Tuttavia, stando ai documenti ufficiali, dopo il 1611 i lavori scemarono quasi del tutto e possiamo quindi assegnare a questa data la fine della prima campagna di costruzione dell’edificio.
 
La seconda stagione di lavori iniziò di lì a breve, sul finire del 1617, quando Ranuccio pensò di realizzare il Teatro Farnese laddove stava il grande Salone. Questa trasformazione creò non pochi problemi in quanto fu necessario realizzare un ulteriore corpo di fabbrica verso il cortile della Pilotta per ottenere un largo palcoscenico. Così facendo si restrinse il cortile con una nuova facciata rimasta incompleta e fu ovviamente anche necessario trasferire altrove alcune delle funzioni del Salone: per esempio nella Cavallerizza, ricavata ad ovest del Teatro Farnese. Nel 1620 si cominciò a costruire anche intorno alla Rocchetta secondo il progetto di Pier Francesco Battistelli, scenografo e pittore, ma con la morte del duca Ranuccio, nel 1622, i lavori furono interrotti, anche perché arrivò a occuparsi della Pilotta l’architetto Rainaldi, il quale approntò un nuovo progetto per l’ampliamento del palazzo verso il torrente e verso la Ghiaia. L’ampliamento sul torrente consistette nel raddoppio della galleria ad ovest del cortile del Guazzatoio: un volume architettonico semplicemente appoggiato al corpo di fabbrica delle Scuderie, preesistenti e più alte. Invece nel fronte verso la Ghiaia si costruì poco, solo gli scantinati e una piccola parte di facciata. Dopo la morte di Ranuccio la casata dei Farnese si spense in maniera ingloriosa tra eredi incapaci e di bassa levatura politica, oppure morti troppo presto per poter riportare in auge il nome del casato. Quando nel 1731 il duca Antonio morì senza lasciare eredi, il passo fra i Farnese e i Borbone fu breve. Sul trono di Parma e Piacenza salì Filippo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese e di Filippo V re di Spagna. Gli ultimi Farnese non si occuparono più della fabbrica della Pilotta e questo disinteresse può essere imputato, al di là dei problemi economici, politici e dinastici, anche ad un uso delle corti entrato in voga nel Seicento, sulla scorta dell’esempio di Versailles, ovvero quello di costruire ed abitare con sempre maggiore assiduità residenze grandi e sfarzose in località decentrate rispetto alla città. A Parma infatti le rocche di Colorno e di Sala Baganza iniziarono ad es-sere preferite alle dimore di città. Intanto la Pilotta in quegli anni divenne ospite di sempre più numerose collezioni, nel vano tentativo di far riacquistare prestigio a Parma.
 
Il problema del decoro delle residenze ducali si riaprì solo nel 1750 con Filippo di Borbone, il quale decise di applicare una nuova facciata in stile Luigi XV sulla facciata nord del Palazzo Ducale. Forse l’intenzione era quella di aprire, in seguito, una piazzetta di corte, demolendo alcuni edifici sul lato opposto, ma rimanevano comunque i problemi della cappella e dell’abside di San Pietro Martire. La questione si risolse nel 1767 quando, per dare spazio al progetto dell’architetto francese Petitot, si demolirono parte della nuova facciata e del Palazzo Ducale. Infatti dopo la morte di Filippo di Borbone, nell’attesa che l’erede legittimo, Ferdinando I, raggiungesse la maggiore età, fu il ministro riformatore Guillaume Du Tillot a occuparsi del governo. Egli diede avvio ad una grandiosa ristrutturazione architettonica e urbanistica della residenza ducale e della città. Purtroppo però, dopo alcuni slanci iniziali, nel 1771 Du Tillot cadde in disgrazia e il duca Ferdinando non volle aderire all’illuminato progetto del ministro. Di fatto, dopo il 1771, Ferdinando e la moglie trascurarono il palazzo di città per le rispettive residenze di Colorno e di Sala Baganza: questo gesto influì profondamente sulle sorti della Pilotta. Nei trent’anni prima del volgere del secolo si ipotizzarono diversi progetti per regolarizzare e limitare lo slargo provocato dalle demolizioni del 1767, ma al contrario nel 1813 con l’avanzare dell’età napoleonica, l’area libera aumentò a causa della soppressione dell’Ordine dei Do- menicani, la chiesa e il convento di San Pietro Martire furono demoliti. Le ragioni sono ancora ignote, ma è plausibile supporre che l’area sgomberata dovesse ospitare un edificio di pubblica utilità. Nonostante ciò, l’area fu convertita in giardinetto di corte nel 1818.
Con la disfatta napoleonica e l’avvio della Restaurazione, tutti i luoghi culturali presenti in Pilotta subirono notevoli trasformazioni: si restaurò il tetto del Teatro Farnese, si costruì la Sala De Rossi annessa alla biblioteca, ma soprattutto si ampliarono la Galleria dell’Accademia, l’Archivio di Stato e la Biblioteca Palatina, per la quale si costruì un nuovo corpo di fabbrica poggiante sull’incompiuta facciata verso la Ghiaia. Gli ampliamenti e gli impegnativi restauri consacrarono il palazzo ad un uso rappresentativo, conferendo, finalmente, un ordine visivo e formale alla piazza di corte.
Tuttavia negli anni ’40 l’intervento di Bettoli condusse a nuove modificazioni nell’aspetto esteriore della Pilotta, tutte in funzione degli interni. L’architetto assommò all’edificio ulteriori volumi che andavano ad infierire sul già eterogeneo esterno dell’edificio. Lo sfruttamento intensivo dello spazio intorno alla mole farnesiana continuò fino alla metà dell’Ottocento, con la costruzione della nuova scuola di scultura nell’area tra la Rocchetta e il torrente, su disegno di Paolo Gazola.

 

La vera svolta per l’immagine e l’utilizzo dell’edificio si ebbe con l’Unità d’Italia, quando Parma divenne un semplice capoluogo di provincia. La Pilotta continuò ad alloggiare servizi: la Prefettura nel Palazzo Ducale oltre alle istituzioni culturali nelle loro posizioni attuali, ma tante parti di edificio cessarono di svolgere le loro funzioni originarie, perciò si delineò l’esigenza di stabilire un nuovo “ruolo” per il palazzo nel nuovo contesto cittadino. Le volontà che guidarono questo cambio d’uso furono soprattutto tre: la progressiva conquista di tutto il palazzo da parte delle strutture culturali, la conseguente esigenza di maggiore accessibilità da parte dei fruitori e infine il tentativo di rendere la Pilotta un vero e proprio monumento con degli interventi viabilistici. Nel 1865 l’ingegner Fulgenzio Setti riaprì i tre fornici dell’ala est del cortile della Pilotta: i lavori si conclusero solo a fine secolo, quando si riprogettò il ponte sul torrente per avere un unico asse perpendicolare a Via Garibaldi. Poi nel 1936, si aprì un ulteriore transito verso la Ghiaia con via Pigorini. Con questi ultimi interventi la Pilotta divenne parte integrante della città collegando al meglio le due zone divise dal torrente. Tuttavia nel 1944 il processo iniziato con Setti si fermò a causa dei bombardamenti che compromisero seriamente il Teatro Farnese, la Galleria, l’Archivio e la Palatina, ma soprattutto l’antico Palazzo Ducale che fu quasi raso al suolo.
A questo punto vale la pena ricordare come, in seguito alle distruzioni della guerra, si dovette  ricollocare sia i volumi negli scaffali petitotiani ricostruiti, sia fare i conti con le mutilazioni murarie della Pilotta. Il Teatro Reinach (costruito nel 1871 da Soncini) e la Cavallerizza, danneggiati durante i bombardamenti, furono demoliti, così come si stabilì di non conservare nulla dei pur cospicui resti del Palazzo Ducale. Soluzione assai dannosa alla luce delle più moderne teorie del restauro che vedono nel monumento un’opera di valore, in quanto testimonianza degli avvenimenti storici che l’hanno caratterizzato negli anni. Fu soprattutto questa decisione a porre le premesse della ben nota querelle sul destino di Piazzale della Pace. Si susseguirono progetti, disegni, soluzioni più o meno ufficiali e intanto la Pilotta, sempre più visibile e attraversabile, compì finalmente il passaggio da edificio di corte a monumento pubblico cittadino.

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
INGEBORG, WALTER; Casa Farnese: Caprarola, Roma, Piacenza, Parma, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, Milano, 994.
FORNARI SCHIANCHI, LUCIA (a cura di); Il Palazzo della Pilotta a Parma : dai servizi della corte alle moderne istituzioni culturali, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, Milano, 996.
WATKIN, DAVID; Storia dell’architettura occidentale, Zanichelli Editore, Bologna, 999.
LOTZ, WOLFGANG; Architettura in Italia: 1550 – 1600, Rizzoli libri illustrati, Milano, 2004.
ADORNI, BRUNO; L’architettura a Parma sotto i primi Farnese: 1545-1630, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia,
2008.


Il Palazzo della Pilotta:

dal dopoguerra all’intervento di Mario Botta
Rossella Musi


Fin dalla nascita del genere umano l’individuo singolo, o nella comunità si è adoperato per connotare in qualche modo il luogo della sua esistenza. La costruzione di edifici o anche solo la sovrapposizione di pietre, la creazione di sculture o totem, era il chiaro simbolo dell’esistenza. Così oggi come allora, l’uomo costruisce non solo per creare spazi usufruibili e funzionali, ma anche per creare simboli connotanti del sito. Ogni edificio diventa quindi pubblicità per se stesso e per la città di costruzione. L’edificio è in tutto e per tutto elemento vivente all’interno di un sistema di altre costruzioni che possono vivere o morire. Ed è la popolazione stessa che usufruisce degli spazi di ogni singolo edificio a farne un elemento catalizzatore o meno per la città. Il pubblico stesso di ogni costruzione è la sua pubblicità, il motore che ne stimola o ne disincentiva la fama. Così la Pilotta per Parma, cambiando funzione nei suoi secoli di vita, deve essere grata alla popolazione di Parma, che a suo modo ne ha permesso l’esistenza e la conservazione. Inizialmente un’architettura come questa non aveva il solo scopo di creare spazi funzionali. Prima per i Farnese e poi per tutte le dominazioni successive, significava possedere un edificio di rappresentanza, la cui monumentalità simboleggiava la magnificenza e il potere dei proprietari. Ancora oggi la fabbrica della Pilotta è simbolo, monumento, non solo per la città, ma anche per l’architetto progettista. Di seguito si tratterà dei molti architetti di fama internazionale che parteciparono a molteplici concorsi con lo scopo di rendere la Pilotta un nuovo polo d’incontro per la città di Parma. Si vedrà anche come gli stessi cittadini si siano ribellati più volte ai progetti di cambiamento dell’edificio storico, forse più radicato all’interno del tessuto urbano e dell’immaginario collettivo dei parmigiani.
La Pilotta, proprio come un essere umano durante lo scorrere della sua vita, ha attraversato molte fasi di evoluzione e cambiamento. Questa breve analisi tratterà solo la fase più recente, a partire dai bombardamenti che la mutilarono e ne stravolsero il percorso funzionale nel 1944. Infatti, furono proprio le rovinose conseguenze della Seconda Guerra Mondiale a dare vita ad un nuovo “flusso di idee” su cosa poteva significare da quel momento in poi l’edificio della Pilotta per la città di Parma.
Nei bombardamenti del 1944 vennero distrutte diverse parti del palazzo, il Corridore, quasi l’intero Palazzo Ducale del Bettoli, il Teatro Farnese e il teatro Paganini; così subito nel nuovo dopoguerra si pensò di ricostruire il Palazzo Ducale, riprogettandolo esattamente com’era e dov’era. Fu l’architetto Franco Carpanelli ad essere incaricato del progetto nel 1961 ma alla sua presentazione, due anni più tardi, il progetto non venne realizzato.
Un’altra parte, oggigiorno mancante, che fu giudicata degna di essere ricostruita, fu il Teatro Paganini. Nel 1964 fu indetto un concorso pubblico dove furono chiamati diversi architetti italiani, tra cui: Carlo Aymonino, Paolo Portoghesi, Aldo Rossi, Roberto Gabetti e Aimaro Isola. Il progetto vincitore fu di Luigi Pellegrin, ma anche questa idea progettuale rimase solo sulla carta. Nel 1973 venne bandito un successivo concorso, questa volta il bando non prevedeva la ricostruzione di parti distrutte, ma la progettazione di un nuovo parco pubblico, con l’obiettivo di riqualificare lo spazio antistante la Pilotta, da tempo destinato a parcheggio. Tra i progetti presentati, in un primo momento ne furono considerati validi due: Motto di Cortesi e Viganò e Abraracourcix di Walter Barbero e Giuseppe Gambirasio. Tuttavia, alcuni giorni dopo lo scadere della data ultima di consegna del concorso, l’architetto Guido Canali e lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle presentarono la loro ipotesi, non senza contestazioni. Questa fu ben accetta, ma anche questa volta non si procedette ad una reale proposta esecutiva. Tuttavia questi due professionisti continuarono ad occuparsi della Pilotta negli anni a venire, realizzando il restauro della Galleria Nazionale nell’ala nord della Pilotta. Il progetto rispetta l’incatenarsi della struttura in lunghi corridoi e prevede passerelle sospese in un percorso lineare che non si interseca mai su se stesso. La porzione dell’edificio che più rendeva ardua l’impresa conservativa era il teatro Farnese, a causa della sua struttura lignea altamente infiammabile. Canali fa quindi del teatro ricostruito un ingresso per l’intera galleria,
evitando così un collegamento diretto con la Biblioteca Palatina, importante patrimonio da
tutelare in caso di incendio. Il progetto di Canali prevedeva una serie di travature a traliccio a vista con lo scopo di  dare una idea di incompiuto, non finito. Nella parte sottostante è adibita una zona per la visione di audiovisivi. I pannelli, con sfondi di diverse tonalità di grigio, sono studiati in modo da essere parte di un sistema flessibile. A tal proposito Quintavalle afferma: “L’idea di Canali viene quindi ad essere un contributo importante al moderno dibattito sui musei e il loro arredo. Non dunque una struttura fissa, stabile, ma la possibilità di adattare le travature a traliccio alle necessità espositive”.1
Ma durante l’intervento di Canali sull’interno dell’edificio, continuava anche il dibattito sul rifacimento dell’area esterna della Pilotta. Nel 1980 l’architetto Giancarlo De Carlo fu incaricato dall’amministrazione comunale di Parma di redigere un progetto per il Piazzale della Pace.
Le contestazioni furono durissime. Il progetto infatti non si limitava ad una sistemazione urbanistica e riprogettazione dell’area verde, ma prevedeva anche la costruzione di alcuni
edifici con funzioni di pubblica utilità al vicino Teatro Regio. Le numerose polemiche bloccarono le fasi esecutive del progetto. Solo nel 1986, a distanza di oltre trent’anni dalle prime idee progettuali, fu contattato per il progetto, che si rivelò essere definitivo, l’architetto Mario Botta. Tuttavia, proprio a causa delle lamentele di alcuni cittadini, anche per la realizzazione di questo progetto ci vollero alcuni anni.
Già nei progetti precedenti si era evidenziato il continuo tentativo di creare uno spazio dove le “preesistenze storiche” non venissero dimenticate: chi attraverso la ricostruzione degli antichi spazi del palazzo Ducale (Canali), chi attraverso il mantenimento della pianta della chiesa di San Pietro Martire (De Carlo). Inoltre il luogo preposto al progetto di riqualificazione era situato proprio al centro di un interessante sfondo culturale e commerciale. A tal proposito Stefano Storchi sottolinea che: “alla Pilotta quale contenitore di Università, Soprintendenze, Biblioteca Palatina, Pinacoteca, Museo Archeologico, teatro Farnese e istituto d’arte, si aggiungono, nel raggio di duecento metri, il Teatro Regio, il Museo Glauco Lombardini, l’ex convento di San Paolo, per non citare l’immediata connessione al Giardino Ducale”.2 L’amministrazione aveva quindi già accuratamente descritto le necessità funzionali del luogo, ed era conscia di quello che all’architetto era necessario richiedere.
     
Mario Botta dovette tener conto di queste istanze tentando di soddisfare le richieste fatte dalla committenza in un clima di forte polemica. Immaginò quindi il  progetto iniziale articolato in tre punti cardine: una “galleria urbana” lungo via Garibaldi, una vasca d’acqua che avrebbe ricostruito idealmente la pianta della chiesa di San Pietro Martire, ed un volume cilindrico, da lui stesso chiamato Il Cilindro3, posto in corrispondenza dell’ormai distrutto Palazzo Ducale, che avrebbe dovuto ospitare un centro culturale composto da: una sala Auditorium con millecinquecento posti, tre sale prova, una delle quali era prevista anche per svolgere funzioni di sala congressi per cinquecento posti. A queste stanze erano poi annessi tutti i servizi necessari, come spazi tecnici e un ampio foyer. Progettò anche un passaggio di collegamento con il contiguo Palazzo della Provincia. L’edificio doveva poi essere interrato a tre livelli adibiti a parcheggio sotterraneo. La Galleria Urbana fu pensata come un elemento di filtro tra Strada Garibaldi e l’impianto della Pilotta stessa. Questa doveva contenere spazi commerciali, creando una galleria chiusa d’inverno e aperta d’estate. Il percorso sarebbe stato di centocinquanta metri di lunghezza per dieci di larghezza. Del terzo elemento, la chiesa di San Pietro Martire, sarebbe restato solo un segno, un ricordo simbolico della preesistenza. Tutto il vuoto restante doveva essere colmato da spazi verdi, con una parte destinata a riprendere “l’ottocentesco Piazzale delle Piante nel settore nord-est”.
Nonostante l’approvazione del consiglio comunale, una serie di raccolte di firme bloccarono il progetto. Per l’ennesima volta l’agguerrita popolazione, così affezionata alla “veduta” sulla Pilotta, non poteva permettere che questa venisse “offuscata” da una nuova costruzione, che pareva voler ricoprire la magnificenza dell’antico passato. Il progetto venne quindi negli anni rielaborato e semplificato, divenendo poi quello che oggi effettivamente possiamo osservare.
Botta confermò alcuni degli elementi previsti nella prima fase, ne eliminò alcuni e ne aggiunse altri. Il progetto cominciato nel 1986 si concluse dieci anni più tardi e fu effettivamente realizzato solo nel 2001.
    
Il Parco della Pace oggi si compone di sei elementi caratterizzanti:
- Un Tracciato perimetrale in pietra, fatto di gradini e segni a terra, ad evidenziare il limite tra spazio verde di sosta e tessuto urbano in movimento.
- Un Prolungamento dei “trottatoi”, dalla Pilotta fino a Via Garibaldi, così da collegare la suddetta strada al ponte Verdi.
- Un Asse prospettico creato dal selciato affiancato al palazzo dell’Intendenza Finanziaria e bordato da un filare di cipressi, ad incorniciare il preesistente monumento a Verdi.
- Il Monumento al Partigiano di Mazzacurati, sopraelevato rispetto alla quota della piazza.
- Una Vasca che riprende l’antica pianta della distrutta Chiesa di San Pietro Martire, con i suoi banchi e i pilastri trasformati in cipressi immersi nell’acqua.
- Un grande spazio verde calpestabile, che attraverso la sua area apparentemente vuota genera stupore e pone l’attenzione sulla magnificenza del contesto.
Concludendo questa breve trattazione, può apparire che la tutta vicenda sopra descritta si sia trascinata per troppo tempo. Oltre quarant’anni per riprogettare l’uso di uno spazio, che per l’ignaro osservatore può sembrare vuoto. I parmigiani sono stati lungimiranti, forti dell’idea che un palazzo come la Pilotta andasse valorizzato ed evidenziato e non “offuscato” da un nuovo edificio progettato da un famoso architetto internazionale, che avrebbe senz’altro messo in “secondo piano” le vedute piene di cicatrici, sacrificando l’identità e la memoria dell’edificio. Del resto il progetto evolutosi in favore di un maggiore rispetto degli alzati esistenti non è estraneo alla poetica del grande architetto e rende onore alle sue teorie. Lo stesso Botta sostiene che “lo spazio generato dalla luce è l’anima del fatto architettonico. I volumi costruiti concorrono alla definizione degli spazi che nel progetto architettonico restano obbiettivo finale; è il vuoto che detta le relazioni spaziali e funzionali, che controlla i tracciati visivi, che genera possibili emozioni, attese, interpretazioni.”
La luce diventa l’elemento fondante di tutto il progetto per il Parco della Pace. Lo spazio si trasforma e muta, così come i suoi utilizzatori, con lo scorrere del tempo. D’estate il manto verde è quasi invisibile sotto i corpi delle persone che sedute o sdraiate vivono il luogo in relax. In questi mesi il passaggio non è indirizzato, è libero, per chiunque utilizzi questo spaziourbano così atipico per una città relativamente piccola. D’inverno invece, i trottatoi guidano in un percorso obbligato le persone, che si fanno più frenetiche, mentre la luce rimbalza tra i filamenti erbosi indisturbata. Sono principalmente gli studenti del Dipartimento di Beni Culturali ad usufruire del luogo, veloci attraversano il grande cortile per recarsi alle lezioni all’interno dell’Ala dei Contrafforti della Pilotta. Ma è proprio nei mesi invernali che le panche della vasca d’acqua diventano punto di sosta per i cittadini, mentre lo spazio verde calpestabile resta vuoto. Questi spazi sono quindi dimostrazione che talvolta un “vuoto” non costruito, ma ben studiato, può risultare più vivibile di un luogo chiuso.
La gran parte della popolazione parmigiana ha reagito bene al progetto, e questo pare, a mio avviso, aver raggiunto un buon equilibrio tra vuoti e pieni. Il verde urbano del Piazzale
della Pace, per la città, è diventato un punto d’incontro simbolico che non cozza con il vicino Parco Ducale, che ha una concezione totalmente diversa, forse più storica e meno aperta alla città.

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
ADORNI, BRUNO; L’architettura farnesiana a Parma: 1545-1630, Parma, Editore Battei, 974.
BOTTA, MARIO;  Luce e Gravità : architetture 1993-2003, Bologna, Editrice Compositori, 2004.
RANZANI, ERMANNO; Il caso Parma, da “Domus”, n° 683, maggio 983.
STORCHI, STEFANO; La piazza dei guasti: antefatto di un progetto, Parma, Assessorato all’urbanistica Co-
mune di Parma, 990.
Possiamo quindi dire che, nonostante le vicissitudini, le polemiche e un gran quantitativo di
spese, la diatriba ha avuto un felice epilogo, dimostrabile dal gran numero di persone che
ogni giorno usufruisce, o semplicemente passa, per lo spazio della Pilotta.


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