animula vagula blandula
Tentolini, giovane artista che già si è segnalato in numerose e prestigiose rassegne espositive, presenta in questa occasione alcune sue opere recenti accanto a una nuova serie di lavori che dà il nome alla mostra: Animula vagula blandula.
A voler ridurre l’evento al suo primo livello di contenuti, lo spunto figurativo di partenza è “l’uomo che cammina”, o meglio la sua labile traccia disincarnata in una percezione distante, emotivamente neutra e quasi distratta. Ma è proprio in quel punto, dove l’immagine sta per scomparire, azzerata nel grigiore di fondo di una memoria ormai satura o travolta dal flusso vorticoso di infinite sollecitazioni visive, che Tentolini compie il suo salvataggio in extremis, riconferendo quasi artigianalmente stabilità a quell’ombra, secondo un percorso inverso che conduce alla sua interiorizzazione, cioè a ritrovarla sedimentata in un riposto angolo della memoria. Si tratta dello sviluppo di una ricerca che Tentolini persegue coerentemente ormai da diversi anni attraverso installazioni, proiezioni luminose, complesse stratigrafie di volti e di corpi realizzate su freddi supporti trasparenti o impresse su più caldi materiali tradizionali come il legno e la carta. Al di là dei differenti livelli di lettura cui si prestano i suoi lavori, un primo sicuro effetto sullo spettatore è quello di un singolare ampliamento della percezione oltre i confini del visibile e del sensibile, dove l’ultima traccia del corpo si rivela la soglia di una misteriosa cartografia dell’anima.

Valter Rosa

 

15 dicembre 2007
testo introduttivo alla mostra personale “Animula Vagula Blandula” Museo Diotti, Casalmaggiore (Cr)

 


ANIMULA VAGULA BLANDULA
Giorgio Tentolini, giovanissimo artista, ha già un curriculum piuttosto significativo, con attestati di stima e riconoscimenti che ha acquisito nel corso di diverse esposizioni, anche in luoghi prestigiosi, in Italia e all’estero. Artista locale, certamente, ma già proiettato in dimensione internazionale.
Un omaggio a lui era quasi in un certo senso dovuto, non solamente perché fra i giovani artisti locali è, secondo me, uno dei più interessanti, non solo per la sua alta professionalità, che coniuga l’attività legata alla sua professione di grafico pubblicitario, a questa attività propriamente artistica, senza che ci sia in realtà una vera e propria soluzione di continuità fra queste due esperienze, anzi con una felice confluenza delle due esperienze che è interessante rimarcare anche ai fini della lettura del suo lavoro. Un omaggio dovuto, dicevo, anche per quanto riguarda lo spazio in cui ci troviamo: in occasione della prima esposizione che si è tenuta a Palazzo Diotti, quando non era ancora Museo (l’antologica dedicata a Goliardo Padova), Giorgio Tentolini ci ha dato un aiuto formidabile nella fase di allestimento, di regia complessiva di quel primo evento, quindi era giusto tributargli anche questo tipo di riconoscimento legato proprio al luogo in cui ci troviamo.
Il lavoro di Giorgio è a una prima occhiata semplice. Se ci affidiamo ad uno sguardo piuttosto superficiale, guardando i suoi lavori abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a dei giochi di ottica. Il suo atelier ideale potrebbe sembrare a prima vista un gabinetto di fisica divertente, come quelli che si usavano nel ‘700 e che appassionavano appunto sia i dilettanti di fisica, ma anche filosofi e scienziati in senso stretto. In realtà i suoi apparenti giochi di ottica stratificano una complessità di sensi, di significati che di volta in volta si resta sorpresi di scoprire e intravedere, e poche spiegazioni riescono ad esaurire compiutamente il senso di questi lavori. Ciò avviene a volte attraverso piccoli scarti che lui introduce dentro un’operazione apparentemente solo ottica, certi travasi di immagini da superfici fredde o da supporti di tipo fotografico digitale a supporti che implicano una materialità, un contatto fisico, supporti più caldi, ecco. Il rischio di ogni lettura critica applicata al suo lavoro è proprio quello di operare in senso riduttivo, semplificatorio rispetto alla complessità di questi temi. La miglior chiave critica credo l’abbia fornita proprio lui nel testo pubblicato sul catalogo e che noi abbiamo riproposto nella solita “lettera d’artista” che affianca la mostra.

"Le mie piccole anime sono frammenti di tempo, simili a  leggere scosse elettriche, sono quegli istanti in cui l’attenzione è catturata da un particolare che concentra lo sguardo, sono momenti di silenzio circondati da frastuono, sono il “la” per una fuga di pensieri e talvolta la soluzione di enigmi.
Partendo da questi istanti rubati, scavando le ombre e stratificando le profondità, lavoro su una diversa fruizione dell’immagine fotografica.
Tralascio l’aspetto narrativo e queste immagini non esternano nulla di intimo o di emozionale.
Sono profondamente legato alle mie piccole anime, la fatica di realizzare queste opere è come un piccolo patto di gratitudine rivolto a loro."

Giorgio Tentolini afferma di non sapere scrivere, eppure in quelle poche righe che lui ha scritto sul proprio lavoro ha fornito un punto di vista estremamente efficace, prezioso, che ha guidato anche me per la presentazione che ho scritto per la stampa locale. Quindi il mio non vuole essere un intervento critico sul suo lavoro, anche perché io intendo il mio lavoro di studioso e di critico d’arte (focalizzato non solo sul contemporaneo, ma sull’intero percorso della storia dell’arte) in una accezione particolare, e non solo il solo a pensarla in questo modo: per me fare critica in relazione a un’opera attuale assume il senso di un’operazione interessante se investe completamente l’intero arco della storia dell’arte. Il grande valore dell’arte contemporanea è questo: riattivare la storia, capovolgerla, portarci a misurarla, a valutarla, a ripercorrerla con un’ottica diversa, scoprendo anche delle potenzialità, delle bombe inesplose anche nel corso di tutta la storia dell’arte che non è mai un percorso definito una volta per tutte, ma qualcosa da riscrivere continuamente in relazione al farsi dell’arte attuale. Allora facendo riferimento alle ultime opere che Tentolini ha sviluppato, che poi hanno dato il titolo (bellissimo) da lui scelto per questa mostra, propongo in maniera molto rapida una sequenza di opere famose, tratte dalla storia dell’arte, in relazione al tema, che io ritengo possa fornire una traccia importante, “l’uomo che cammina” e in relazione anche alla forma attraverso cui l’artista ha portato il suo contributo intorno a questo tema. Più che una chiave di lettura, quella che intendo offrire è una sorta di suggestione, che può suggerire delle idee, un modo di guardare anche il suo lavoro, ma che certamente non lo spiega e non lo vuole esaurire.
Artisticamente parlando, l’uomo antico non cammina. L’antichità non conosce questa dimensione, nel senso che tutti quelli che hanno cominciato a riflettere su questa questione, a partire dal Laocoonte di Lessing sino all’età contemporanea, non hanno potuto fare a meno di rilevare la misura attraverso cui l’antico esprimeva il senso del movimento e l’espressione. C’è sempre una misura per cui un movimento reale deve essere in qualche modo modificato ad arte, non reso nella sua verità, così pure come l’espressione di un dolore, di una gioia estrema devono trovare una forma, una misura per poter essere espressi. Tutto questo apparteneva all’antico, che conosceva questo stato di grazia attraverso cui anche un movimento, lo spostamento del corpo non era espresso attraverso una marcia, ma era espresso attraverso un lento incedere, un modo di porre il corpo esprimente armonia e non disarmonia. Questa riflessione che scaturisce a partire dal XVIII secolo culmina poi con il magistrale saggio di Freud sulla Gradiva, dove la nostalgia dell’antico modo di intendere il movimento sfociava poi nel delirio, nell’inseguire questo fantasma di fanciulla incedente.
L’uomo che cammina è una conquista invece della modernità: dentro la tradizione giudaico-cristiana mi piace iniziare il percorso con questa opera celeberrima del Masaccio, La cacciata dal Paradiso Terrestre, dalla Chiesa del Carmine di Firenze, 1425: l’uomo cammina e quindi abbandona una situazione di grazia, perde l’Eden e in questo cammino scopre anche la sua nudità. Ecco, il tema della nudità è centrale in tutta la vicenda che si può raccontare attraverso l’arte dell’uomo che cammina.
Il senso della caduta e della fatalità dell’andare verso la morte è espresso sul piano di una parabola, la Parabola dei Ciechi (1568), in questo dipinto di Bruegel il Vecchio. Ma procedendo velocemente in direzione dell’arte a noi più vicina, ecco L’homme qui marche, di Rodin: forse non tutti ricordano che è una rielaborazione tardiva del 1900- 1907 di un’idea precedente di almeno 20 anni, legata a una scultura raffigurante S. Giovanni Battista.
Quindi questo è ancora un San Giovanni decollato, però proiettato in una dimensione totalmente nuova, moderna; diventa l’uomo che cammina e si apre ad altre considerazioni, a questa volontà di potenza senza testa, a questo movimento inteso come pura azione, senza soggettività, senza sentimenti. Questa scultura sfida proprio l’idea della rappresentabilità del movimento stesso, di questo movimento potente attraverso la forma plastica.
Naturalmente proprio negli stessi anni, anzi un po’ prima, la fotografia svolge un ruolo fondamentale nel mettere a nudo l’impensato, l’invisibile nel movimento umano. Marey, La marcia dell’uomo vista da sopra, una cronofotografia, una delle tante di Marey che aiutano a intravedere ciò che non è mai stato rappresentato in arte nella percezione del movimento stesso: anche la parte più disarmonica del movimento. Esperienza fondamentale, la fotografia, che è la base del Futurismo; ma l’acquisizione, la conseguenza più interessante non è certo nelle forme uniche nella continuità dello spazio di Boccioni, quanto invece nel Nudo che scende le scale di Marcel Duchamp, del 1912, opera antiboccioniana da molti punti di vista: non è tanto la deformazione plastica prodotta dal moto che interessa l’artista, quanto una sorta di trasformazione, un cambiamento di stato. In fondo è ancora l’uomo cacciato dal Paradiso Terrestre, però è un altro paradiso da cui viene cacciato. Infatti questa nuova nudità non segna il passaggio dall’animale all’uomo, bensì dall’uomo a una condizione ulteriore, macchinica, metamorfica, altra comunque rispetto all’umanità. Ma c’è un’altra dimensione in cui leggere l’homme qui marche, l’uomo che cammina, in un percorso a ritroso, alla ricerca dell’Eden perduto, o meglio in quella dimensione possibile dell’Eden che sta nella domenica, nel momento festivo, nella conquista dell’ozio come liberazione dal lavoro. È un grande fotografo questo, August Sander, Giovani contadini che vanno a ballare, 1914. Oppure ancora in maniera più decisa, questo passo, questo uomo che cammina procede nella direzione di un riscatto, di un movimento di liberazione, verso il “sol dell’avvenire”: questo è uno studio del 1895 di Pellizza da Volpedo finalizzato alla realizzazione del grande dipinto del Quarto Stato.
Da leggersi subito in stretta relazione con un’altra età di rivolte, di tensioni sociali e di utopie con quest’opera di Beuys, La rivoluzione siamo noi, 1971. Di nuovo, la fotografia è stata nel ‘900 uno degli strumenti più formidabili per ridare vita a delle percezioni distratte, per rimettere in scena dei fantasmi, delle ombre, fantasmi di persone o di animali e così via. Sotto la pioggia, nella nebbia, là dove la nostra facoltà di mettere a fuoco, in tutti i sensi, sia in senso ottico sia in un senso più profondo, risulta più complicata o comunque deviata: André Kertész, Place du Carosel, Parigi, 1929. Naturalmente non poteva mancare Alberto Giacometti, L’homme qui marche, lo stesso titolo della scultura di Rodin, 1960, con questa idea di tradurre in forma plastica le ombre, l’ombra dell’uomo.
O ancor meglio questo disegno di Alberto Giacometti (1951) che è già la nostra “animula”. Poi c’è il problema della forma. Il lavoro di Giorgio Tentolini tocca a vari livelli, a vari strati (proprio come sono costruite le sue opere: a vari strati), la questione del tempo e della memoria. Sul tempo noi abbiamo tante idee, però riconducibili fondamentalmente a due, un’idea ciclica e un’idea di tempo irreversibile, come la freccia, oppure, come si dice, come l’acqua, come un fiume che scorre. Non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua, se ci si immerge in un fiume. In realtà non è vero, perché se noi immergiamo questa mano nel fiume, si crea una specie di gorgo e nel gorgo l’acqua ritorna indietro, quindi ribagna per una seconda volta la stessa mano. E poi la mano trattiene un po’ di questa acqua.
Il senso del presente, dell’ora è un senso che si è smarrito nella nostra società: si è smarrito curiosamente a fronte dell’ipervalutazione del presente. Conta solo il presente: il passato, la memoria non contano più e non conta nemmeno il futuro, perché non abbiamo abbastanza sogni e risorse per pensare al futuro; tutto è focalizzato sul qui e ora. Ma proprio in questa focalizzazione, in questa presa stretta e avara del presente, si smarrisce il senso del presente, che non è propriamente questo: il presente, l’ora è, come suggerisce un filosofo francese, il participio presente del verbo ‘mantenere’, mantenente, cioè letteralmente ‘trattenere con la mano’. In francese si dice proprio così, maintenant.
C’è una bellissima leggenda tramandata da Plinio, una leggenda romana, che riguarda la vestale Tuccia, una delle sacerdotesse custodi del fuoco sacro nel tempio dedicato ad Estia, la dea del focolare. Tuccia ad un certo punto venne accusata di adulterio e condannata ad una pena terribile, cioè ad essere sepolta viva; per provare la propria innocenza Tuccia scese al Tevere per attingere l’acqua con un setaccio e questo riuscì a trattenere l’acqua senza perderne una goccia. In questo modo Tuccia dimostrò la propria verginità e potè essere riaccolta al tempio di Estia. Questa è un’opera straordinaria, una delle ultime di Andrea Mantegna, La vestale Tuccia, del 1500 circa, nella National Gallery di Londra, una tempera su tavola. Un’opera straordinaria da più punti di vista perché tutta l’opera è il setaccio: il setaccio è il presente, la possibilità di mantenere qualcosa che scorre come l’acqua; ma tutto il dipinto è un setaccio, perché il pittore ha solidificato qualcosa di estremamente mobile, come il movimento dell’aria, che fa volteggiare in maniera straordinaria questo panneggio, e ha solidificato anche l’atmosfera che c’è dietro la figura: questa grisaille meravigliosa vuole fingere il bronzo dorato, mentre quello sfondo che sembra stia per liquefarsi finge un antico marmo orientale. E’ un trompe-l’oeil al quadrato, un inganno, un vero rebus per lo spirito. Si dice di Mantegna che aveva un cuore di marmo, proprio perché solidificava l’idea stessa del movimento: in realtà questo mi sembra un banalissimo modo di leggere il Mantegna. Il pittore giudica le cose, il tempo, la vita degli uomini, da un punto di vista
che non è quello della temporalità umana, si pone in una dimensione più vasta, cosmica; il suo tempo è quello geologico, ben oltre i limiti della storia umana, per cui in questo senso tutta l’opera è questo straordinario setaccio che trattiene la roccia e condensa nel presente l’infinità temporale.
Non c’è niente di più liquido oggi del mondo delle immagini, più liquide dell’acqua: le immagini scorrono a milioni davanti ai nostri occhi, e il grosso lavoro, la grossa fatica è quella di riuscire a trattenere qualcosa di significativo: un setaccio non sempre trattiene quello che serve, anzi il più delle volte serve per trattenere quello che è da buttare via. Tutto il problema sta lì, in quella soglia del setaccio, cioè nel capire quanto di quello che viene trattenuto è utile per la nostra memoria, quindi per formare la nostra coscienza, e quanto invece è quello che sta passando in quel momento e che forse dobbiamo cercare di mantenere in un altro modo. Questo mi ha suggerito di leggere i lavori di Giorgio Tentolini come dei formidabili crivelli…ma può darsi che non sia così.

Valter Rosa


15 dicembre 2007 ore 17,00
trascrizione di Letizia Frigerio alla presentazione della mostra “Animula Vagula Blandula” Museo Diotti, Casalmaggiore (Cr)