la Rete

 

Nel momento in cui ho deciso di fare arte ho dovuto mettere al centro la stratificazione. Io vivo un rapporto quasi materno con la Rete: sono, come tutti, il frutto di una selezione di caratteristiche che, volenti o nolenti, sono filtrate attraverso una rete, o meglio, un sistema di reti.
Questo reticolo di madri affonda le sue radici in numerose antichità, ma la più rassicurante, per me come per ogni italiano, è quella classica: una genitrice dai tratti somatici greco-romani, come la Elena di Zeusi, frutto della sovrapposizione delle specificità migliori delle cinque crotoniate più belle. Un paradiso artificiale, simulacro inorganico intriso di religione.
Gli dèi pagani sono artificiali? Probabilmente sì, ma la loro esistenza nelle menti dei fedeli aveva conseguenze concrete. Ho voluto ridare vita a tale dualismo imperfetto attraverso il progetto
Pagan Poetry. Desideravo che gli osservatori dei miei ritratti attraversassero il sottile confine tra la bidimensionalità e la tridimensionalità, come un pellegrino che attraversa le porte del tempio per ammirare una statua creduta divina. Un passaggio semplice ma significativo.

Pagan Poetry. (dal 2017).
Pagan Poetry. (dal 2017).

La sicurezza che infonde il simulacro sacro viene anche da tratti simbolici che li rendevano velocemente identificabili, come i grappoli d'uva tra i capelli di Bacco. Stessa sorte per i santi cristiani, i quali spesso dovevano essere riconosciuti da analfabeti.

Anche nella società attuale l’influenza dell’iconografia surclassa quella del testo scritto. I VIP del tempo affermano la loro identità attraverso simboli e oggetti di riconoscibilità immediata, mentre il pubblico li assorbe e li imita; quest’ultimo è sempre pronto, però, a spostare la propria attenzione sul prossimo glifo.
Attraverso
Eídōlon ho inteso esplorare le similitudini sorprendenti tra l'iconografia religiosa e l'attuale coltivazione dell'identità sociale. I miei dèi classici sono individui contemporanei, resi concreti dall'intelligenza artificiale, la quale è solo l’ultima forza a plasmare e reinterpretare personalità antichissime.
La fragilità di questi tratti distintivi, catturati dalle brevi occhiate che dedichiamo ai personaggi famosi mentre scorriamo il
feed delle nostre pagine social, è ripresa dalla mutevolezza cromatica del tulle con cui sono realizzate le opere. La memoria collettiva qual piuma al vento, e altrettanto fragile.

Eídōlon. (dal 2023).
Eídōlon. (dal 2023).

Feed, la parola scelta per indicare i contenuti che scorrono sui nostri schermi quando esploriamo i social, è traducibile con “foraggio”, eppure questo alimento non sembra saziarci, poiché non ci nutre davvero. Anche il navigare sul web (ancora una volta, la Rete) è reso in inglese col termine surfing, che implica una esplorazione superficiale, un galleggiare. Il contrasto è notevole: fluttuiamo... eppure molto spesso, quando navighiamo nella Rete per soddisfare i nostri appetiti, ci muoviamo in apnea. Sospesi il fiato e i sensi, eppure profondamente concentrati, siamo tutti in too deep, come i soggetti che ho scelto di ritrarre in questo progetto: uomini e donne inventati da un’intelligenza artificiale, oramai in grado di realizzare sempre più temibili deep fake, prodotti di falsificazioni di identità reali estremamente accurati.

I volti di In too deep hanno gli occhi chiusi: tentativo di rivolta alla tirannia del video (letteralmente dal latino, io vedo) o accettazione di uno sguardo negato dal destino? Forse i simulacri antichi avevano già trovato la soluzione: le statue, del resto, hanno occhi che non possono chiudere, ma privi di pupille.

In too deep. (dal 2023)
In too deep. (dal 2023)

Quando, momentaneamente saziati dal nostro feed, distogliamo lo sguardo dal nostro dispositivo, lo disattiviamo. In quell’occasione lo schermo diventa uno specchio nero che ci restituisce una copia fantasmatica di noi stessi. Questo doppelgänger è ciò che resta della nostra identità digitale: è etereo, e solo parzialmente sovrapponibile con ciò che siamo nella vita reale, eppure è ormai l’immagine che più contribuisce a creare l’idea che gli altri hanno di noi.

Da queste riflessioni scaturisce l’idea alla base di No-one: “non-uno”. La singolarità può essere negata in due modi: attraverso la pluralità, ma anche attraverso l’assenza di entrambi gli elementi. Un concetto nato un secolo fa, al quale Pirandello ha dato forma nel suo celebre “Uno, nessuno e centomila”, che torna da gigante nell’epoca contemporanea.
E’ possibile restare neutrali di fronte alle sovrapposizioni di tali identità in dissolvenza? Lo stesso termine “neutro” viene dal latino
ne-uter, ovvero “nessuno dei due”. Ancora una volta, una possibile soluzione sta nella negazione, nella fuga.

No-One. (dal 2023).
No-One. (dal 2023).

Se con l’immersione nella realtà virtuale diventa ancora più difficile la creazione di una identità unica, il sentiero di fuga dalla molteplicità/assenza ci conduce a una dissociazione a volte confortante. Scollegati da tutto, il nostro sguardo, finalmente neutro, ricorda il thousand-yard stare dei soldati distaccati in toto dagli avvenimenti che li circondano. Se il frutto dell’abuso del digitale è un soggetto (o forse più oggetto) imbambolato, mi chiedo quale identità possa creare la macchina senza passare dall’uomo. La mia risposta è nel progetto Derealized: visi rassicuranti ma non reali di modelle forgiate dall’intelligenza artificiale, stratigrafie sovrapposte, chimere telematiche con un patrimonio genetico esteso quanto tutto lo scibile umano. Non volti viventi, dunque, ma interpretazioni di un algoritmo che trasformo in una rappresentazione (almeno parzialmente) solida. Le mie bambole sono battezzate con “Algor.”, che è ovviamente l’abbreviazione di “algoritmo”; curioso notare che algor in latino sta per “freddo”. Non vi è calore familiare: nessuno può riconoscere quei visi, né quei volti sono in grado di riconoscere ciò che li circonda. Bambole imbambolate, derealizzate. 

Derealized. (dal 2023)-
Derealized. (dal 2023)-

Mi chiedo quale sia il potere effettivo del nostro sguardo nel momento in cui la maggior parte degli stimoli visivi giunge da una realtà edulcorata da noi stessi. Riconosceremmo per strada l’intera platea di individui che sfila sulle nostre pagine social? Li definiamo contatti, ma qual è il punto effettivo di contatto? Raramente esso è visivo. E’ ciò che rappresento nella serie Filtro: individui emergenti dai social attraverso immagini così artefatte da filtri di bellezza da mettere a dura prova la propria riconoscibilità.

Siamo alchimisti di filtri e pozioni magiche (phármaka) di metamorfosi, come la maga Circe. Tuttavia il termine phármakon indica anche il veleno, e Circe tramuta chi le è ostile in maiali o mostri.
Sta a noi superare quel senso di straniamento e cogliere l’autentico che traspare dalla Rete. Del resto, il web è in sé e per sé un filtro, e lo scopo di ogni filtro è lasciar passare una parte di ciò che lo attraversa

Filtri. (dal 2020)
Filtri. (dal 2020)

Le vicende del mio passato filtrano attraverso la trama e l’ordito dell’analisi. Ciò che percola e sopravvive è plasmato con forbici e tronchesi: così nascono i miei progetti artistici. Prima ancora di reti e tulle, gli alleati delle mie prime esperienze erano le modelle. La prima opera che ho realizzato in rete metallica era una di loro, una

Jeune-Fille. Fu un inizio che implicò la fine della mia prima fase lavorativa.

Le protagoniste del mio progetto Jeune-Fille sono riprese da lontano, nei backstage, nel momento in cui protagoniste non sono affatto... nel momento in cui i trattamenti riservati alle loro grazie le avvicinavano all’immagine desiderata da chi ha pianificato le sfilate. Il trucco contribuiva ad amplificare la geminazione: “una menzogna che culmina nel viso”, come affermava il Collettivo Tiqqun.

Le mie Jeunes-Filles sono personaggi principali con nomi comuni, che non permettono una vera identificazione. Le storie che ogni volto racconta sono solo sussurrate, messe a tacere dallo stridere dei binari su cui slitta ognuna di loro. E ognuno di noi. 

Jeune-Fille. (dal 2016)
Jeune-Fille. (dal 2016)

La modella rappresenta la bellezza di un breve periodo storico, e ha l’onere/onore di fungere da avatar di una moltitudine. Ma anche le modelle sono una moltitudine: migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi che interpretano tale ruolo per un periodo breve delle loro vite, come sciami di effimere che vivono tra un equinozio e l’altro.

La decomposizione della Jeune-Fille è rapida e inesorabile, ma allo stesso tempo essa è imperitura, perché continua a essere sostituita. I volti cambiano, ma le storie si ripetono, esattamente come le stories che si susseguono a ritmo incalzante, di 24 ore in 24 ore, sulle pagine dei nostri social.

Da tale riflessione nasce la serie Fade. la bellezza si muove vorticosamente: il nostro sistema nervoso è sovraccaricato da un surplus di immagini le quali diventano evanescenti, destinate a perdersi. Le modelle di Fade non fanno eccezione: nel giro di due lustri mi sono reso conto, anche grazie alle mie precedenti esperienze nel mondo della moda, che la bellezza è tale se si fugge tuttavia.

Fade. (dal 2019).
Fade. (dal 2019).

Per resistere alla dissolvenza è necessario alterarsi, spesso anche solo in apparenza. Questa capacità è tipica dell’attrice più che della modella.

Sono sempre stato affascinato dalla figura di Ulisse, definito da Omero polytropos, ovvero “ingegnoso”, “dai molti espedienti”. L’astuzia di Odisseo coincide con la sua capacità di mutare aspetto: l’eroe ricorre più volte, nel poema che prende il suo nome, all’arte del travestimento, o assume una falsa identità per mettere alla prova le persone con cui entra in contatto. I Greci lo paragonavano a un polpo: l’animale astuto per eccellenza, in grado di mimetizzarsi, assumendo il colore dell’ambiente che lo circonda e la forma degli oggetti a cui aderisce.

Come Ulisse, anche le icone più celebri devono adattarsi per sopravvivere. Nel progetto Polytropos le immagini dei VIP, create dall’intelligenza artificiale (e già non autentiche alla nascita) sono ulteriormente deformate, diventando altro. E’ un passaggio obbligato per la fama duratura: di molte star non conosco la biografia, ma le loro immagini evocano in me una certa serie di topoi. Prestando il viso a un’idea, fanno di se stesse una maschera

Polytropos. (dal 2020)
Polytropos. (dal 2020)

La capacità di adattarsi è attoriale. L’attore che sopravvive alla sua giovinezza indossa i vessilli di nuove icone, come le grandi icone sexy del passato che hanno assunto ruoli materni e successivamente matriarcali. E’ una dote di pochi mestieranti dello spettacolo.

Gli umani non possono beneficiare della immutabilità dei modelli classici, e tendono a soccombere. Non per questo lo sforzo di lasciare anche solo un’impronta su un sentiero battuto da miriadi di passi deve sembrare vano. “Muori da solo e la tua immagine morirà con te”, diceva Shakespeare al suo adorato fair youth.

Anche i modelli interpretano un ruolo, sempre lo stesso: quello del canone di bellezza ricercato dalle major. Ho potuto mirare e ammirare la tensione di molti giovani nel tentativo di diventare il volto di un paradigma. Ho preferito bloccare in un’istantanea, tramite teleobiettivo, l’attimo in cui i modelli tornavano umani, dopo aver assunto la responsabilità di rappresentare l’aspetto del presente. Questa ammirazione per i giovani, che si insinua tra il platonico e il filiale, è la spina dorsale del progetto Youth

Youth. (dal 2017).
Youth. (dal 2017).

Quando giovani non siamo più, sviluppiamo un brutto rapporto con il passato e il futuro. Tra i tre modi di identificare lo scorrere del tempo, il presente è quello più inafferrabile, eppure è quello a cui tentiamo di avvinghiarci con tutte le forze. Il progetto Lapse si riallaccia a tale culto del qui e ora, riflesso nella crisi della soglia d’attenzione, ridotta pressapoco al mero istante. In Lapse i tratti somatici di bambini e star, fuori dal loro complesso quindi irriconoscibili, rimandano all’incapacità di riconoscerci come non più giovani, di accettare che ciò che eravamo nel passato non può più essere presente, nel senso temporale e spaziale dell’hic et nunc... Come la mitologica Aurora che non accetta la vecchiezza di Titone.

Col passare degli anni la soglia di accettabilità del termine giovane si fa sempre più generosa, così come le attività a cui sottoponiamo i nostri corpi non più nel pieno del vigore: rischieremo di emulare la fine della Sibilla Cumana, maestra del futuro, immortale nello spirito ma deperibile nel corpo? Di lei rimase la voce, chiusa in una gabbia a elargire responsi a persone che avevano un brutto rapporto col futuro. 

Lapse. (dal 2017).
Lapse. (dal 2017).

Se il passare reale del tempo reale ci gioca scherzi che non possiamo ignorare, possiamo tentare perlomeno di lottare contro i tiri mancini della memoria, il nostro tempo personale. Leggendo il romanzo Soffocare di Palahniuk ho scoperto la sindrome del jamais vu, all’opposto del deja vu: vedere più volte le stesse cose, ma collocarle costantemente nel dominio del presente.

Come la succitata Aurora, immortale e sempreverde, che deve prestare assistenza al marito Titone, immortale ma in fase costante di deperimento, Victor, protagonista della vicenda, deve occuparsi della madre Ida, ricoverata in manicomio per la sindrome suddetta. Ma essendo povero in canna, Victor, per pagare la degenza alla genitrice, ogni sera inscena in vari ristoranti la stessa farsa: finge di soffocare e di farsi salvare la vita da un prescelto, che paradossalmente si sentirà debitore nei confronti di chi lo ha reso eroe per una notte. Per Victor la sua finzione non può ripetersi due volte nello stesso luogo, così come ogni azione non può ripetersi due volte per chi soffre della sindrome del jamais vu, la quale ha ispirato questa serie. 

Jamais vu. (dal 2018).
Jamais vu. (dal 2018).

Il manichino è la personificazione del jamais vu: un oggetto che vediamo molteplici volte, ma che non imprime nessun marchio nella nostra memoria.

I manichini svolgono il loro compito alla perfezione ogni volta che sono chiamati in causa: sempre uguali a loro stessi, sono la costante di ogni vetrina e atelier di moda del mondo; muta solo ciò che indossano, e ciò che indossano è l’unico elemento su cui dovremmo porre la nostra attenzione. Ciò accade anche alle statue e all’arredo urbano: entrano nella memoria spaziale dell’abitante fino a scomparire. Essi hanno la stessa funzione delle colonne dei templi classici, che ora ammiriamo prive dei loro pigmenti originari, come manichini spogli: sorreggono la casa del dio, ma non sono il dio. Come l’attore classico, che sul palco indossa una maschera e per un paio d’ore si fa bello delle caratteristiche di un personaggio, mai di se stesso. Come il manichino, che per due settimane si fa bello di un indumento, mai di se stesso.

Le mie Floating heads, come i ricordi di ciò che è fatto per restare nella coda dell’occhio, fluttuano nella nostra memoria per il tempo di un battito di ciglia. 

Floating heads. (dal 2019).
Floating heads. (dal 2019).

A volte è necessario eliminare il non-necessario per fare chiarezza. Il superfluo diventa indispensabile solo nell’arte. L’endiadi è un “uno per mezzo di due”, una coordinazione non necessaria, figlia di una esigenza di eleganza.

Le teste di manichino del progetto Endiadi conservano tratti somatici che a malapena permettono di distinguere il sesso biologico, ma sono prive di elementi identitari: hanno subìto la stessa sorte di chi lo fa di propria volontà, come i monaci che praticano la tonsura, o di chi subisce la pratica, come gli ebrei nei campi di concentramento. L’obiettivo è lo stesso: diventare una comparsa in un organismo collettivo, sia esso il monastero o il lager. A proposito di dualismi: a differenza delle teste della serie No-one, create da un’intelligenza artificiale, i semi-volti di Endiadi sono stati fotografati nel nostro mondo. Ma ciò non è condizione sufficiente per raggiungere la chiarezza. Due dati concreti, individuabili nel mondo attraverso i nostri sensi, incrociandosi sfumano i reciproci confini di realtà. Il risultato è quello di due segni negativi che si incrociano in un’operazione aritmetica: si vola verso un altro universo. 

Endiadi. (dal 2019).
Endiadi. (dal 2019).

Per esser puri e disposti a risalir le stelle è necessario mettere sulla bilancia i chiaroscuri della nostra vita e adeguarsi a un codice: è la formula che Dante Alighieri adotta per completare il suo viaggio in Paradiso. Ma questa impresa non può essere compiuta da soli: per il poeta fiorentino intercedono varie figure, tra cui la misteriosa Matelda, che lo accoglie nell’Eden e lo sottopone a un rituale di purificazione. Solo bevendo dalle acque del Lete, che fa dimenticare i mali fatti, e dell’Eunoè, che fa ricordare il bene compiuto, Dante avrà i requisiti fondamentali per la traversata celeste. Ad Laetam, verso la beatitudine.

L’Alighieri è avatar dell’umanità: è prassi di ogni società assumere sostanze, dalle più innocue come il caffè alle più devastanti, per sopravvivere alla quotidianità. Paradossalmente, per purificarsi di un male invisibile ci si intossica il corpo concreto.

Ad Laetam (che è l’anagramma di Matelda) è un'autoanalisi: un negativo e un positivo della mia persona che suggeriscono qualcosa di diverso in base all’angolo di visione adottato dall’osservatore. Il mio Lete e il mio Eunoè. 

Ad Laetam. (dal 2021).
Ad Laetam. (dal 2021).

A meno che non ci si chiami Dante Alighieri, per accedere al Paradiso bisogna morire. Eppure esistono scampoli di beatitudine celeste a cui si può accedere mentre si è ancora in vita, e senza l’ausilio di sostanze esterne: paradisi non artificiali, come li definiva Baudelaire, ma naturalissimi: sono gli orgasmi. Ironicamente, in francese la sensazione può essere definita petite mort: un breve indebolimento di coscienza che è un assaggio della nostra dipartita.

Questa sensazione che per molte religioni è così profana ha numerosi legami con lo spirituale e il laico. Se per Baudelaire l’espressione di estasi provata dalla Santa Teresa del Bernini è stata vista da lui più volte in contesti ben più mondani, per Roland Barthes la proiezione astrale provocata dalla piccola morte è l’obiettivo massimo di ogni grande lettore alle prese con un classico.

La mia serie Petite mort ha come protagonista il tulle, la stoffa per eccellenza di spose e ballerine, due figure che si fanno portatrici di purezza (di intenti e di movimenti). Adoro questo atto di togliere e mettere il velo, nascosto nell’etimologia dei due verbi d’azione “svelare” e “rivelare”. 

La petite mort. (dal 2022).
La petite mort. (dal 2022).

Il velo a volte si allontana dai suoi parenti etimologici e non vela né svela. E’ il caso del drappo che sorregge la Santa Teresa del Bernini (una nuvola, oggetto che anche etimologicamente vela) citata precedentemente, ma soprattutto del panneggio leonardesco protagonista della serie Appel du vide, ancora una volta in tulle.

Di nuovo il francese mi viene in soccorso per dare nome all’horror vacui provato dai pittori e più prosaicamente da tutti. Essere nudi è provare il richiamo del vuoto: il drappeggio, o più banalmente l’indumento, disegna il corpo pur non mostrandone i tratti.
Mi chiedo se anche un vestito provi tale sensazione quando non è indossato: quando lo si vede nell’armadio, appeso sulla gruccia, ha solo una vaga parvenza di vita, come la muta di un rettile.

Il vestito è come la pelle: identifica i nostri limiti sociali (le classi sono sempre state identificate dal loro vestiario) ma anche spaziali. Dobbiamo ubbidire alla gerarchia del vuoto, o rischiamo di fare la fine del famoso imperatore della fiaba. 

Apel du vide. (dal 2019).
Apel du vide. (dal 2019).

Il richiamo del vuoto mi ha spinto ad analizzare altri luoghi (o meglio, non-luoghi) che vivono a cavallo tra due vacuità. Nella serie In limine la rete che compone le opere restituisce l’illusione del divario tra l’interno e l’esterno: sono facciate strepitose di case fatiscenti, porte e finestre, porte o portali.

Una "porta" si riferisce principalmente a un'apertura fisica in una struttura che consente il passaggio delle persone, un "portale" può essere sia una porta fisica che un punto di accesso a informazioni o esperienze. Le case del resto sono a loro volta portali: sono la somma di millenni di cultura abitativa, con presenze di timpani greci ma anche archi romani, sovrapposizioni rinascimentali e medievali. La stratigrafia urbana ha molti punti in comune con la stratigrafia statuaria. Tutto ciò che abbiamo intorno non è solo funzionale, ma anche l’insieme di scelte estetiche appartenenti a epoche diverse, sovrapposte.

Abbiamo il dovere di cercare qualcosa di più, fuggire dalla schiavitù del pragmatico. La rete delle opere di In limine rimanda ai varchi agognati da Montale nell’omonima poesia. 

In limine. (dal 2020).
In limine. (dal 2020).

É davvero possibile trovare il varco nella maglia della consuetudine? La mia ricerca collima nel paradosso.

Mi piace il termine Immobili, e ho realizzato un progetto dedicato alle case protagoniste di annunci di affitto. Questi immobili sono in realtà in assoluto movimento: sono unità abitative che ospitano persone per un periodo circoscritto.

Ho riflettuto sui rituali di battesimo di una casa da affittare: quando ci si mobilita per arredarla o ripararla si scelgono elementi che possono essere soddisfacenti per quasi chiunque. Si finisce così però per privare l’immobile di ogni carattere: un battesimo che diventa funerale, un luogo che diventa la negazione di se stesso. Un albergo a lunga durata. Tale baluardo di transitorietà spesso accoglie anche momenti significativi della nostra vita.

Le stesse persone che abitano gli Immobili diventano fantasmi pronti a sgusciare via, tormentati dalla smania di spostare gli oggetti e i mobili acquistati in un’altra realtà che si possa definire propria: forse questi spettri irrequieti sono gli individui che hanno più possibilità di sfuggire alla Rete

Immobili. (dal 2020).
Immobili. (dal 2020).

A cura di Mario Manzo