gli altri materiali

Pensavo che fossero venuti da lontano, ma sono sempre stati qui.

Tra le mie mani, o meglio, dentro le mie mani.

 

La mia arte non può prescindere dal materiale su cui metto le mani. La materia è la vera protagonista dell’opera, ancor prima del soggetto plasmato dalla stessa. Prediligo componenti di uso comune, comprimari del vissuto di ognuno di noi: mai personaggi principali, ma indispensabili…Eppure, di essi si perde facilmente la memoria.

La carta rappresenta per me l’humus su cui facciamo crescere ricordi destinati a durare. Essa è il materiale di archiviazione per eccellenza: perde la propria identità (già maciullata dagli stracci o dalle fibre macerate per crearla) per assumere quella di chi la verga. Ma quanto c’è da fidarsi di un medium che dice quasi la stessa cosa? Il dubbio è legittimo. Come ricorda Socrate, il messaggio che viaggia su carta contiene una soluzione a un problema da lui stesso creato: veleno e cura per la memoria.

la carta
la carta

Anche un testo che viaggia su carta non è altro che un tessuto, come ricorda l’etimologia della parola. Chi scrive, esattamente come chi tesse, incrocia orditi e trame; e quanto la parola trama ci rimanda al raccontare, scopo primario della forma scritta?

Ogni comunicazione è un racconto, e un racconto parte da un fatto conosciuto al destinatario per svelarne uno inedito: non vi sarebbe interesse nella narrazione, altrimenti. Lo stesso fa un tessuto che copre una persona e che viene rimosso: l’informazione conosciuta, la sagoma, anticipa la rivelazione del corpo, l’intimità più pura. Tale parallelismo tra testi e tessuti è un percorso battuto dai nostri progenitori biblici: Adamo ed Eva, arrivati a velarsi le pudenda dopo aver attinto all’albero della conoscenza. 

Se l’atto di svelare è il rivelare un’intimità, è possibile violare un segreto ricoprendolo di veli? Ho tentato di rispondere al quesito attraverso i miei lavori in tulle. La voluminosità del mio tulle rimanda alla leggerezza, inconsapevolmente posseduta ma destinata a perdersi, di chi ancora non sa. La conoscenza è un male necessario? È un male? È necessaria?

il tulle
il tulle

L’atto dello svelare tramite il rivelare (nel senso di velare di nuovo, più volte) non è stato il mio unico tentativo di buscare il levante per il ponente, come diceva Cristoforo Colombo.

Intrecciando le parole, protagoniste di ogni testo, in trame e orditi, ho creato tessuti che restituiscono immagini: ciò che accade quando si è di fronte a un arazzo, un insieme di fili che dona l’illusione di una figura. Lo stesso processo che lega il trasmettitore del significato, ovvero la parola, al significato stesso, l’idea: ogni testo diventa immagine nella nostra mente.

La parola è per me una formula magica, un incantesimo di evocazione. Non ha mai smesso di stupirmi la sinestesia alla base del linguaggio scritto, ovvero la capacità di una parola di salpare dalla vista per giungere agli altri sensi… come il famoso navigatore genovese prima citato, che approda in quella che lui chiama Asia volgendole le spalle alla partenza.

Ma l’Asia di Colombo non è l’Asia. Dare un nome alle cose è un potere che sfiora il divino, come ben sa anche Adamo… ma a differenza di Dio, siamo suscettibili all’errore. Attenzione ad evocare (letteralmente estrarre dalla voce) senza stonare.

le parole
le parole

Ho riflettuto sulle insidie dell’estrapolazione, come sa bene chi di mestiere lascia fuoriuscire parole scritte e pronunciate. Lo ricorda il “Socrate” di Millman: prima di raccontare, è bene prendersi il tempo di filtrare il messaggio attraverso setacci di verità, bontà e utilità. 

La trappola dell’arte non è meno infida. L’ossatura dei miei primi progetti in rete erano le maglie da setaccio, oggetto umile e potente simbolo. Il setaccio trattiene, ma può anche raffinare - un calappio che sottintende una metamorfosi benefica per chi sa cosa lasciarvi avvinghiato -, è lo strumento dei cercatori d’oro. 

La pazienza di chi cerca (o vuole diventare) oro, di chi deve sbrogliarsi dalla trappola: le mie prime reti erano la messa a punto di una strategia vincente nella partita a scacchi contro il tempo, come accade ne Il settimo sigillo di Bergman: anche la scacchiera è una griglia. Tornando a Millman: se il tempo è un setaccio benigno quando deve aiutarci a riconoscere la verità, non si può dire lo stesso della bontà e dell’utilità: l’oro è ciò che resta, non quanto cola via dalle maglie.

la rete
la rete

Non è tutto oro ciò che luccica, e non tutto luccica. Il vetro e molte plastiche posseggono la capacità di essere attraversati dalla luce, più che rifletterla: setacci di un elemento che aspira all’immaterialità: il massimo risultato ottenibile è la trasparenza.

Cosa accade alla luce quando ci colpisce? La fisica ci dice che una buona parte dello spettro è assorbita, l’altra è respinta. Non ci è concesso di luccicare come l’oro, né di lasciar filtrare la luce, come gli oggetti trasparenti. Credo che per noi umani la trasparenza possa essere solo emozionale.

Un individuo che lascia filtrare le sue emozioni è definito trasparente, del resto. Una comunicazione priva di controllo emozionale è senza filtro: la nostra chance di essere davvero cristallini.

Cosa resta di tale trasparenza? Una sorta di fantasma emozionale, percepito solo da individui estremamente sensibili, così come gli spettri sono percepiti dai medium. I fantasmi sono considerati però infestanti: presenze sgradite, identità paradossali, rimaste dove non dovrebbero essere per un conto in sospeso mai chiuso. Il prezzo dell’essere trasparenti è l’essere sgraditi. 

Gli spiriti sono sgraditi perché approssimazioni dell’uomo. Abitanti della uncanny valley, la valle del perturbante: l’occhio ci ricorda che sono uomini, ma l’istinto ci avverte che non sono esattamente uomini. L’identità umana è una boccata d’aria anche per uno spettro: l’anima di Achille confessa a Ulisse che, piuttosto che una celebrità tra i morti, preferirebbe essere il più anonimo tra i vivi. 

Anche imago, l’immagine latina, può indicare un fantasma, e non pochi spettri, anonimi e vivi, popolano le nostre immagini fotografiche. Si tende ad approssimare la complessità dei semisconosciuti catturati per caso nelle foto, privarli del tutto tondo. Ma non esiste un’immagine che non sia una semplificazione: ciò che ci è concesso di ammirare è già una parte ridotta dello spettro della luce, e la riproduzione di ciò che vediamo attraverso mani e strumenti è un ulteriore appiattimento - e le immagini sono già di per sé private di una delle tre dimensioni del reale. Le immagini sono di quanto più umano esista: esigenza di comunicazione, ricerca di complicità, accettazione di un limite.

le immagini
le immagini

Un umano consapevole dei propri limiti ha i piedi per terra: saggio ma non audace, rischia di sfiorare il complesso di inferiorità quando il suo sguardo è troppo fisso sul pavimento.

La terra è per me il simbolo di una volontà di anonimato, di una eclissi dell’autore. Gaia, la terra divina per i Greci, scompare dietro le quinte affinché i riflettori restino accesi sulla sua progenie. La terra è quasi sempre madre, del resto, e il sacrificio delle proprie pulsioni a vantaggio dei propri figli è insito nel suo ruolo. Anche la terra non mitica assume tale maschera di sacrificio identitario: la roccia si ricopre di muschio, la parete è soffocata dai rampicanti a cui lei stessa dà supporto. 

La sagoma rizomatica di tali piante mi ha sempre ricordato le reti che sono poi divenute protagoniste del mio lavoro. Come per il taglio delle reti, la potatura delle piante non implica la morte o una indicibile sofferenza - come è per noi un’amputazione - ma il plasmare di una identità con la consapevolezza che si potrà sempre tornare indietro - o meglio, andare avanti. Dalla terra, la ramificazione. Dalle mie mani, nelle mie mani: la ramificazione.

la terra
la terra

 

 

a cura di Mario Manzo